Il 28 giugno scorso, intervenendo come opinionista a “Cartabianca”, talk-show condotto dalla Berlinguer, Flavio Briatore, imprenditore del divertimento contemporaneo, dopo un servizio mandato in onda dalla conduttrice sulle spese dei vip nelle località turistiche esclusive del nostro paese si è scagliato contro la conduttrice e il giornalista Cappellini di Repubblica – che sottolineavano la discrepanza che emergeva da quel servizio rispetto alle sofferenze del paese reale – accusandoli di suscitare l’odio e l’invidia nei suoi confronti e nei confronti di tutti gli imprenditori “brillanti” e ricchi come lui.

E in effetti dal servizio emergevano cifre per il soggiorno e la ristorazione che erano uno schiaffo alle difficoltà di molti italiani di mettere insieme il pranzo con la cena (una suite di lusso a 2500 euro per notte, un piatto di aragosta a 700 euro, una bottiglia di vino  a 2000 euro) e non potevano lasciare indifferente chiunque creda in una società più giusta e solidale. Cifre che Briatore ha commentato in  modo arrogante, con il piglio e la presunzione del privilegiato convinto che tutti aspirino ad essere come lui per poter godere di quelle cose e che, dal momento che non ci riescono, scarichino la loro frustrazione in odio e invidia per chi invece le gode. Dopo di ché l’imprenditore si è avventurato anche a fare un’analisi economica di quei prezzi, dicendo che sì era un bel guadagno per i gestori, ma anche per lo Stato, perché ad esempio su una bottiglia da 2000 euro 600 finivano come Iva nelle casse dello Stato. E che quelle cifre e quelle spese permettevano a tanti giovani di lavorare e, ha aggiunto, che era una bufala che venissero pagati poco nel comparto turistico, perché i camerieri che lavoravano con lui non prendevano meno di 2200 euro al mese. Dati e affermazioni che meriterebbero un’analisi più approfondita, ma che in questa sede non sono oggetto del mio interesse.

Ciò che mi ha colpito, infatti, nell’intervento di Briatore – da lui del resto già ribadito in altre situazioni – è stato soprattutto l’insistere sull’invidia e sull’odio che “noi” poveri proveremmo nei confronti di “lor signori”, con il desiderio spasmodico di poter fare come loro e di poterci permettere un giorno quello stesso tenore di vita. Nascerebbe da qui il nostro rancore sociale, dall’essere semplicemente degli invidiosi e, sottointeso, degli incapaci a fare come loro.

Assistendo a questo teatrino molto populista nei toni, mi sono immediatamente tornate alla mente le parole che a proposito di ricchezza e povertà scrisse Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi “Scritti corsari”, Ignazio Buttitta: “Io faccio il poeta”.

“Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male [] Dico povertà, non miseria. Son pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura «povera» insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo… Sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni economiche, che hanno l’aria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, possono significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dell’umanità fosse ormai la storia dell’industrializzazione totale e del benessere, cioè un’“altra storia”, in cui non avessero più senso né il modo di essere del popolo né la ragione del marxismo. Forse il culmine di questa storia aberrante – benché non osassimo sperarlo – l’avevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola discendente”.

Com’è possibile non ritrovarsi in queste parole da parte di chi ha fatto della propria storia personale un cammino sociale più che una scalata individuale? Di chi quel poco che ha lo deve soltanto a se stesso ed è il frutto del proprio classico sudore della fronte? Non magari di intrallazzi, di gabole, di “trapule”, come si dice in Piemonte, ai margini della legalità? È a questa povertà che fa riferimento Pasolini, povertà che è tutt’altro che frustrazione, limitazione e rancore per chi ha di più, ma che, anzi, guarda a quei poveri disgraziati (parola intesa, in questo caso, proprio come “senza grazia”), che cercano di trovare consolazione al proprio ego ipertrofico concedendosi il lusso dell’esagerazione, come a dei poveri infelici. E che è impregnata di creatività, cominciata da bambini quando un pezzo di legno diventava una spada o addirittura un cavallo, ed è proseguita con ironia e autoironia, nel gruppo paesano o di quartiere, quando uno di noi si vestiva “da festa” e noi gli dicevamo che sembrava “il cane di un signore”.

Ecco che cosa non hanno capito e continuano a non capire “lor signori” vecchi e nuovi: a noi poveri non importa un kaiser dei loro lussi pacchiani, abbiamo più piacere di dormire in una pensioncina a conduzione familiare o addirittura in tenda che in una suite di lusso e preferiamo una “ribotta” di stoccafisso nell’osteria rimasta quella di una volta che mangiare un piatto d’aragosta qualsiasi sia il suo prezzo; e se ci presentano una bottiglia di vino da 2000 euro ridiamo da scompisciarci perché sappiamo che non esiste vino che possa costare tanto, ma è tutta scena per farlo sentire speciale per “lor signori” che in genere capiscono poco di vino.

A noi importa che non ci rovinino quello che, almeno per ora, è ancora il bene comune, quello condiviso da ricchi e poveri, e cioè la natura che ci circonda, il nostro paesaggio italiano. Che non inquinino i nostri fiumi e i nostri mari e poi si chiudano pure nelle loro località esclusive. Che paghino le tasse che devono pagare, non che piangono sempre miseria (loro!) e magari portano soldi all’estero “perché il fisco li opprime”. Che non si ciuccino la sanità privata come business e lascino quella pubblica nella merda. Che paghino ai nostri giovani salari equi, non che si rifiutano tramite i loro rappresentanti in Parlamento di introdurre un salario minimo. Che non esagerino a trattarci da peones, perché prima o poi anche i grulli incantati dai vari imbonitori che si sono susseguiti in questi anni magari cominceranno a capire come funziona il vapore.

Perché essere popolo è bello, è il modo più genuino di essere umani.

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