Ma questo maschio sa ancora amare?

Povera quella donna
che incontra l’uomo bambino
e rimane avviluppata
nella rete del suo capriccio…
Eppure si accorge
che quel maschio insicuro
è pronto ad azzannarla alla gola,
ma è donna e potenzialmente mamma
e vuole sottrarlo al suo destino.
E sopporta violenza
pur di raggiungere lo scopo,
finché si rende conto
della trappola mortale
che pian piano
lui le stringe attorno.
Ormai
non può farcela da sola,
soltanto la legge può salvarla.
Ma che cos’è questa legge
che tutela la libertà del carnefice
e gli dà in pasto la vittima
su un piatto d’argento?
Quando lo vede avvicinarsi
con quello sguardo folle
di adulto ragazzino
sa già
quale sarà la sua sorte.
Fugge d’istinto,
ma aspetta il colpo
che troncherà
come una tragica liberazione
quel sogno d’amore
diventato un incubo.
E io, uomo e maschio
che assisto a tutto questo,
nell’orrore che provo
di fronte a tanto strazio,
mi chiedo
se esiste ancora il maschio,
quello che era innanzitutto uomo,
che se amava una donna
e lei non lo voleva
la lasciava andare
per la sua strada
e in silenzio dentro di sé soffriva.

Dall’inizio dell’anno, secondo i dati del Viminale, sono già state uccise 63 donne in ambito familiare e affettivo e 43 di esse per mano del partner o dell’ex partner. Dati agghiaccianti che si ripetono ormai da tempo senza che nulla cambi. Come se si trattasse di un costo sociale da pagare, alla stessa stregua delle morti “bianche” (morti per cause di lavoro) di cui ci s’indigna (tre persone al giorno) ma il dato rimane stabile anno dopo anno.

Eppure nel luglio 2019, proprio per arrestare l’escalation continua di femminicidi,  è stata varata dal nostro parlamento la legge n. 69, nota come Codice Rosso, per tutelare le donne e i soggetti deboli che subiscono violenze in varie forme. Prevede la procedura d’urgenza per questi casi, l’inasprimento delle pene e la definizione di nuove fattispecie di reato. Prevede anche la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati  dalla vittima per l’autore della violenza, da garantire anche mediante l’utilizzo di mezzi elettronici tipo il braccialetto che, grazie alla centralina installata in casa del reo, consentirebbe di tenerlo sotto controllo costante impedendogli nuove incursioni che potrebbero risultare letali. Se poi si adottasse il braccialetto bilaterale come avviene in alcuni paesi europei, la vittima sarebbe informata in tempo reale del pericolo incombente. Ma per fare tutto questo ci vuole il consenso del soggetto incriminato e, come se non bastasse, la disponibilità tecnica del braccialetto, che da noi è limitata e, chissà perché, di difficile gestione.

La repressione delle violenze di genere è dunque stata inasprita, ma fa ancora acqua da tante parti e spesso lascia la vittima assolutamente in balia del carnefice – come dimostra la maggior parte dei casi di “cronaca di una morte annunciata” – per limiti di impostazione e di organizzazione del servizio. Di fronte a una denuncia per maltrattamenti, di fronte ai segni fisici di violenza subita, che cosa fanno veramente gli addetti ai lavori? Ovvero, che cosa possono fare? Qualche volta molto, per capacità degli operatori e tipologia dei protagonisti della vicenda, qualche altra poco sia per i mezzi limitati sia per la sottovalutazione della gravità degli atti. E spesso, come nella roulette russa, è il caso a scongiurare la tragedia o a determinarla.

Ma cosa si potrebbe effettivamente fare per evitare di giungere a questi estremi?

Innanzitutto il femminicidio non può essere affrontato soltanto con le norme del codice penale inasprite o aggiornate che siano. È un problema di cultura, di relazione irrisolta tra le persone e, in particolare, tra i generi. Insisto tra le persone perché rientra nel problema più generale della violenza che permea di sé molte delle manifestazioni del nostro vivere sociale. E se è storicamente vero che le relazioni umane sono impregnate da violenze e sopraffazioni, è altrettanto vero che anche nella promozione e nella difesa dei diritti dell’individuo nelle società democratiche si è soprattutto pensato agli aspetti repressivi dei comportamenti devianti piuttosto che privilegiare percorsi di educazione alla non violenza. Sono stati sanciti, infatti, articoli e principi meravigliosi – a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’Onu alle varie Costituzioni nazionali – insegnati e commentati soprattutto nelle sedi scolastiche, ma non si è mai messo in atto un progetto di educazione alla non violenza che mirasse ad affrontare i conflitti quotidiani delle relazioni interpersonali e, in particolare, di quelle di genere. Per questa ragione, quei principi diventati materia scolastica rimangono per lo più impressi nell’immaginario dei ragazzi come il fantasma di tante altre discipline scolastiche di cui con il tempo si perde addirittura la memoria. E così permane sotto traccia in molti di loro quell’atavismo istintuale che li porta a far prevalere la violenza, fisica o psicologica, come prassi nelle relazioni o a farla emergere inconsulta e inaspettata di fronte a situazioni che non sono in grado di affrontare razionalmente.

Educare alla non violenza vuol dire fare un percorso quotidiano di consapevolezza non solo dei diritti individuali sanciti ed esistenti, ma del benessere che ci deriva dall’azzeramento dei conflitti sia risolvendoli consensualmente sia sottraendosi ad essi con scelte unilaterali. È questo che bisogna cominciare a fare nelle Scuole, è su questo che devono incentrarsi soprattutto gli aggiornamenti degli insegnanti in modo che la stessa loro didattica ne metta in atto i principi. Ma l’azione della Scuola non basta se non coinvolge anche la famiglia, perché è lì che nasce in genere la cultura della violenza – sia con atti pratici che con concetti rozzamente ripetuti – per cui ci vuole un piano educativo che la riguardi e la impegni a partecipare al dibattito e alle azioni conseguenti.

Ma, oltre a ragionare sull’importanza di tutto questo lavoro sociale non violento, credo che per inquadrare il fenomeno si debba soprattutto riflettere sulla crisi del maschio, sulla sua progressiva perdita di identità in questi ultimi decenni dovuta essenzialmente al mutamento di prospettiva della sua relazione con la donna. La donna è cambiata, si è emancipata, è uscita da uno stato di subordinazione che fino al settembre 1968 ne puniva ancora per legge l’adulterio, consuetudine invece accettata e consolidata per il maschio. È “uscita di casa”, è entrata a larghe schiere nel mondo del lavoro pretendendo di essere trattata come i maschi. Con l’aborto e il divorzio ha ottenuto il diritto di decidere come madre e come moglie e, nonostante le molte difficoltà legate all’applicazione delle leggi specifiche, oggi ha in mano il suo destino di donna.

E il maschio? Mentre la donna si è evoluta, il maschio è regredito. Ed è regredito come uomo, come persona, incapace di gestire il rapporto con questa nuova persona della donna. Ha accettato il nuovo che è avanzato, ma non lo ha affatto interiorizzato. Se l’è appiccicato addosso, non poteva fare diversamente, ma dentro di sé ha covato sempre il fuoco. E l’ha fatto in diversi modi, sia diventando spesso il “cavalier servente” – poco cavaliere e tanto servente – della donna oppure il suo “padre padrone”, proprietario del suo corpo e della sua mente. E in entrambi i casi, di fronte alle scelte di autonomia della partner, ha reagito in modo inconsulto scaricando su di lei quell’istinto palese o represso che si è portato dietro. Ma non solo su di lei, spesso anche sui figli avuti con lei e poi su se stesso, in una sorta di “muoia Sansone con tutti i filistei”. Ecco la punizione che spesso ha riservato alla donna ribelle.

A questo punto uno si chiede che cosa c’entra l’amore con tutte queste vicende e come si faccia talora a dire, di fronte a questi casi, che era una coppia affiatata, una famiglia felice. Non è possibile, c’erano inevitabilmente i sintomi di una malattia che prima o poi sarebbe dilagata. C’era qualcosa di anomalo in quelle relazioni, qualcosa che già non funzionava dal primo istante. Un malinteso, che pian piano sarebbe emerso con tutta la sua esplosività. C’era una relazione tra maschio e femmina, non tra uomo e donna. Tra uomo e donna come persone.

Un giorno dissi a una donna che amavo che soprattutto la rispettavo profondamente come persona e lei rimase perplessa, come se non fosse una dichiarazione d’amore. E invece io ero e sono convinto che il rispetto reciproco sia la più grande delle dichiarazioni d’amore, la garanzia che nell’altro si vedrà sempre un partner umano, anche se l’amore dovesse finire. Come spesso succede e di cui bisogna prendere atto, come persone per l’appunto. E se si è amato si soffrirà terribilmente, si passeranno giorni malinconici e notti insonni, ma si sopporterà tutto questo come persone e come persone si crescerà fossimo anche ormai vecchi.

È tutto questo che mi pare non sappiano fare molti maschi oggi: essere persone sempre e comunque, ma soprattutto amare. E amare vuol dire anche accettare le scelte di un partner che non prova più lo stesso sentimento per noi.

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