“Caro Gianni, io il 29 di novembre aderisco allo sciopero che CGIL e UIL fanno contro questa nuova manovra finanziaria del governo. Nella nostra azienda siamo tanti a farlo e credo che riusciremo a riempire un pullman. Questa volta ho deciso di aderire perché ci credo nelle intenzioni del sindacato sia della CGIL che della UIL. La CISL ritiene che non ci siano i presupposti per farlo, io invece credo che ci siano, anche perché questo sciopero riguarda noi lavoratori e in particolare l’aumento dei salari – che così come sono ci consentono a stento di andare avanti – ma anche i tagli alla sanità, la scuola, la guerra, i pensionati. È per questo che ho deciso e ci vado con la fisarmonica e farò un po’ il menestrello. Se ti vuoi unire a noi in questa avventura che non so come andrà a finire, sicuramente ci divertiremo, come facciamo sempre quando suoniamo e cantiamo. Tu poi sei quello che conosce meglio le canzoni adatte a queste circostanze e allora mi puoi dare qualche suggerimento. Fammi sapere”.
“Caro Luca, sono contento di questa tua scelta, fatta ragionando sulle cose e non soltanto perché magari lo fanno i tuoi amici. Bisogna crederci in queste cose, altrimenti è meglio non farle. Pertanto penso di venire e, se lo ritieni opportuno, estendo l’invito anche a Niccolò”.
“Ma grandi!!! Ovviamente non c’è alcun compenso per quello che farete, ma una brioche e un caffè da colazione e un panino e una bottiglia d’acqua a mezzogiorno possiamo offrirveli”.
“Per queste cose non esiste un compenso. La difesa del lavoro e dei lavoratori è un piacevole dovere. Perché non c’è cosa più bella al mondo che stare in un gruppo e condividere gioiosamente un messaggio di solidarietà e di fratellanza”.
Da questo scambio di messaggi è nata l’avventura che io e Niccolò abbiamo vissuto con Luca e i suoi colleghi operai venerdì scorso a Torino nel corteo sindacale dello sciopero generale indetto da CGIL e UIL.
È bello salire in un pullman assieme a tanti altri lavoratori nella prima mattina ancora buia di un giorno di novembre. È bello conoscersi e simpatizzare seduta stante, perché c’è qualcosa che ci unisce e scatta immediatamente: siamo popolo e siamo tutti orgogliosi di esserlo. Ma non siamo “popolo bue” come qualcuno vorrebbe che fossimo. Cantiamo e ridiamo tanto, perché stiamo bene insieme, siamo tutti uguali. Ognuno con le sue caratteristiche personali, certamente, ma tutti uguali. Popolo che vuole vivere onestamente con il suo lavoro o la sua pensione. E arrivati a Torino raggiungiamo il fiume di popolo di lavoratori che sta partendo per il corteo. Nessuno è incazzato, gli sguardi sono felici, propri di chi si sente protagonista assieme agli altri del suo destino. Proprio come sostenevano gli umanisti con quell’homo faber fortunae suae che non si riferiva al singolo individuo, ma alla specie e alla sua capacità/possibilità di tenere insieme la terra e il cielo, il microcosmo e il macrocosmo. E farlo grazie alla forza dell’amore.
Ed era questo che si respirava nel corteo di venerdì scorso a Torino: la voglia di essere protagonisti, il coraggio di esserlo, di far sapere che così non va bene e che i lavoratori non sono più disposti a sopportare il peso di questa ininterrotta crisi che vede da anni crescere smisuratamente i profitti della speculazione finanziaria e diminuire i salari di chi tutti i giorni va in fabbrica o in ufficio a svolgere coscienziosamente il proprio lavoro. Crisi che lascia per la strada migliaia di lavoratori, con fabbriche che chiudono magari comunicando il licenziamento ai dipendenti con una mail inviata il venerdì sera. Ma lo sanno in pochi, perché la chiusura di una fabbrica non fa più notizia e sono pochi i giornali o i notiziari che se ne occupano. Eppure, se uno va a vedere sul sito del Ministero dello sviluppo economico o del Ministero del lavoro e delle politiche sociali si rende conto di quante siano le situazioni di crisi del settore industriale, molte delle quali agonizzanti da parecchio tempo e pressoché senza speranza.
Abbiamo cominciato, con fisarmonica e chitarra, a cantare canzoni di libertà e di lavoro sul pullman e abbiamo poi proseguito imperterriti per tutta la durata del corteo. Corteo festoso, come nella tradizione sindacale, qualche slogan, ma soprattutto musica e canzoni. Nessuno ha potuto dire “Questi lazzaroni! Passano e spaccano tutto, è una vergogna!”. Eppure qualcuno continua a pensarlo. “Lo fanno per danneggiare il governo e l’Italia! Lo fanno contro gli altri lavoratori!”. Pochi di questi benpensanti dicono “Perdono il salario di un giorno”. Che, vista l’entità dei salari operai di questi tempi, vuol dire stringere un pochino la cinghia.
Ma i lavoratori non vogliono più stringere la cinghia, ormai ce l’hanno anche troppo stretta e corrono il rischio di non riuscire neanche più a tenerli su i pantaloni se la fabbrica magari svanisce per diventare speculazione finanziaria o fuga verso paesi dove il diritto del lavoro è inesistente. I lavoratori dipendenti vogliono essere riconosciuti come una risorsa fondamentale per questa nostra società, sia per il loro lavoro, fisico o intellettuale, sia in quanto uomini e donne che interagiscono emotivamente e socialmente. È per questo che scioperano, per non essere trattati come merce, il cui valore cambia a seconda del mercato, ma come esseri umani in tutta la loro complessità affettiva e sentimentale. Perché c’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui venivano trattati come bestie vendute sul mercato, costretti a orari massacranti e ad ambienti di lavoro insalubri e pericolosi. C’è tutto questo nella Memoria del proletariato italiano e, se in questi ultimi anni gli specchietti per le allodole e le armi di distrazione di massa, dalla televisione ai social, li hanno in qualche modo fiaccati rendendoli da essi dipendenti, ora che il giogo diventa sempre più pesante e non consente nemmeno di godere di quelle dipendenze si ribellano, nei modi sanciti dalla nostra Costituzione. E tra questi c’è il diritto di sciopero, di manifestare la propria insoddisfazione nei confronti di scelte economiche e sociali che li vedono diventare sempre più poveri e tristi. Perché se essere povero un tempo, quando la povertà era una condizione sociale generalizzata, determinava comunque un senso comunitario di appartenenza e di status – ci si abituava a convivere con la povertà e come farlo veniva insegnato ai bambini fin dalla tenera età – oggi essere povero vuol dire essere o diventare in breve tempo solo, con la perdita di tutti i legami solidali propri della vecchia famiglia contadina, in un percorso di discesa agli inferi che spesso porta persone insospettabili, magari fino ad allora con condizioni economiche soddisfacenti, a finire in mezzo a una strada insieme a quella miriade di invisibili ai quali solo la carità di qualche associazione solidaristica consente di sopravvivere.
Difendere il proprio lavoro, la propria dignità in quel lavoro, è crescere in autocoscienza e cultura, è rendersi conto sempre più che il mantra che ci hanno ripetuto in tutti questi anni che fare da soli è bello e conveniente, che bisogna promuovere la nostra individualità anche a discapito degli altri, è una balla colossale, è la malattia ormai cronica di una società che proprio per questa ragione si sta sempre più disgregando e mette gli uni contro gli altri secondo il vecchio concetto hobbesiano homo homini lupus. Ecco chi sono veramente i cattivi maestri, tutti coloro che hanno alimentato questo scontro tra individui, del quale, loro sì, hanno beneficiato per i propri affari ridendosela di quanto gonzi siano stati tutti quelli che ci hanno creduto. E così quella storia ormai secolare di solidarietà popolare che si era espressa ai suoi massimi livelli nelle Società di Mutuo Soccorso e nei Sindacati è andata in frantumi e ha reso il popolo, la povera gente, più vulnerabile e indifesa.
È questo l’errore a cui devono rimediare i lavoratori italiani: tornare ad essere uniti. Capire che soltanto se uniti saranno ascoltati nei palazzi del potere, chiunque governi. Uniti pur nella differenza delle sigle sindacali e associative, ma uniti. E rendere la propria azione un messaggio forte e costruttivo che faccia capire alla controparte padronale e politica che la convivenza democratica si salva soltanto ascoltando la voce di chi questo paese lo manda avanti partendo con il pullman – quando ancora c’è, perché ormai anch’esso obbedisce alle voci di mercato – alle luci dell’alba per andare in fabbrica o in ufficio a lavorare. E capire che l’unità, oltre a far ottenere maggiori risultati, è il solo modo per ritrovare quel popolo gioioso che a un certo punto della sua storia è uscito dalla subalternità e democraticamente si è emancipato. E spesso l’ha fatto, ha dovuto farlo, con lo sciopero che è un diritto inalienabile della democrazia.