L’incompetenza dell’individualismo

Lo scrittore scozzese Andrew O’Hagan[1], autore del romanzo “Effimeri”, un libro sull’amicizia che lega un operaio saldatore  e un figlio di operai che ama i libri e studia all’Università (basato su una vicenda autobiografica cominciata a Glasgow negli anni Ottanta), dice a proposito della situazione sociale che c’è oggi nel Regno Unito: “In Gran Bretagna non siamo mai stati così corrotti, così persi, folli ed egoisti come adesso e tutto ciò affonda le radici nel periodo di Margaret Thatcher. Negli anni ’80, quando eravamo adolescenti, il thatcherismo ha distrutto completamente la comunità. Oggi ci troviamo ancora a vivere le conseguenze nefaste di quel periodo. Penso che Boris Johnson, che ha appena lasciato il suo incarico di primo ministro, rappresenti proprio questa piaga purulenta del thatcherismo che si sta aprendo sulla pelle della vita della Gran Bretagna.
Su tutto questo è arrivata poi la pandemia che non ha fatto altro che palesare le ingiustizie”.

Prendiamo spunto da queste parole di O’Hagan per ribadire anche noi che tutto ciò che stiamo vivendo oggi ha le radici proprio in quegli anni in cui la Thatcher[2] e Reagan[3] sdoganarono l’io incattivito e represso delle masse convincendolo che il destino fosse nelle sue singole mani. Basta pensare collettivamente, fare progetti che tenevano conto delle esigenze di tutti, ognuno doveva pensare per se stesso, credere nelle proprie capacità e far emergere il suo ego in contrapposizione agli altri, perché solo così facendo si faceva il bene di tutta quanta la società. Tanti individui volitivi e rampanti avrebbero cambiato il mondo e avrebbero assicurato paradossalmente il benessere collettivo. Chiaro che chi non si adeguava a questo stile di vita rischiava di restare ai margini del benessere e anche di sprofondare nella povertà, ma questa era una scelta sua e non era giusto che gli altri, gli intraprendenti, perdessero tempo per garantire anche il suo di benessere. Questo pensiero divenne un mantra ripetuto e riformulato in mille maniere a seconda del livello sociale e della cultura di chi lo proponeva che improvvisamente si sentiva investito di una verità sociale elementare che lo rendeva uguale a tutti coloro che, così facendo, avevano fatto fortuna. Come l’avessero fatta poi non contava, se avevano rubato o avuto appoggi che inquinavano le regole del libero mercato a cui costoro si rifacevano non era un elemento ostativo, anzi, una dimostrazione di scaltrezza e furbizia ulteriore nel trasgredire o aggirare le leggi. Leggi che poi, con l’ascesa al potere dei rozzi teorici di questa cultura, diventavano sempre più accomodanti e accondiscendenti nei confronti di coloro che ai tempi della centralità della comunità sarebbero risultati dei veri banditi e che ora invece venivano portati ad esempio come i campioni della libertà personale. Libertà interpretata non più secondo il criterio illuminista del “non fare agli altri quello che         non vorresti venisse fatto a te”, ma secondo il più schietto e volgare homo homini lupus coniugato fino a sconfinare nell’illegalità delle stesse leggi già permissive e spesso personalizzate vigenti nella legislazione degli Stati che avevano fatto scelte politiche ed economiche di radicale libero mercato.

Ma se abbiamo indicato coloro che furono i precursori politici del neoliberismo iperindividualizzato e lo incarnarono nella sua veste più populista, la Thatcher e Reagan, proviamo ora ad analizzare come questa filosofia di vita si sviluppò dapprima nei loro paesi per poi espandersi un po’ in tutto il mondo.

In Gran Bretagna la soglia di non ritorno fu la sconfitta dei minatori del carbone durante gli scioperi del 1984-1985, minatori che si opponevano alla chiusura di una ventina di miniere che avrebbe comportato la perdita del posto di lavoro per più di ventimila di essi. Definiti “nemici interni” dello Stato, i loro scioperi e picchettaggi furono duramente repressi dalla polizia autorizzata dalla Thatcher e dal suo governo ad usare le maniere forti. Nel frattempo veniva ridimensionato il welfare, tendenza che non si è interrotta neppure durante il governo del New Labour di Tony Blair[4] e nei successivi governi fino ai giorni nostri e lo ha reso uno dei meno protettivi in Europa

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Negli Usa Reagan si affidò per le sue scelte economiche alle tesi neoliberiste della cosiddetta Scuola di Chicago[5], rappresentata soprattutto dall’economista Milton Friedman[6], che lo portarono ad adottare come aveva fatto la Thatcher il pugno duro nei confronti delle organizzazioni sindacali e degli scioperanti, favorendo i licenziamenti nei settori investiti dalla crisi e tagliando drasticamente la spesa sociale, Questo determinò da un lato la rivalutazione delle remunerazioni di chi aveva mantenuto un posto di lavoro, ma dall’altro l’ingrossarsi sempre di più della massa degli indigenti senza speranza. Il principio economico che divenne una sorta di modello era quello del rischio e questo favorì il rafforzamento del capitalismo finanziario e delle sue speculazioni che, oltre a far crescere il divario tra ricchi e poveri, è diventato poi un fattore di improvvise crisi devastanti, come quella del 2007-2008.

Ma, al di là di inquadrare il contesto economico e politico in cui si affermò in quegli anni l’individualismo, proviamo a individuare quali furono i protagonisti in carne ed ossa di questo nuovo fenomeno socio-economico, che accolsero in pieno la panacea del libero mercato che quei leader spingevano all’eccesso.

Da un lato c’erano i grandi industriali, in particolare i produttori di armi, che dalla politica di forte defiscalizzazione delle imprese e di riduzione del ruolo delle organizzazioni sindacali trassero un notevole beneficio. Per loro le politiche di muscoli e di potenza dei due establishment britannico e nordamericano sono state una garanzia di mercati e di egemonia commerciale planetaria sotto la bandiera del libero mercato che però, se indotto con le armi, tanto libero poi non era. E con essi i grandi speculatori finanziari (i piccoli, tranne qualche rara eccezione, dopo una prima illusione di facili guadagni finivano in braghe di tela) che proprio in quegli anni cominciarono a costruire le loro immense fortune.

Dall’altro una miriade di individui del proletariato tradizionale e della classe media che, sedotti da questa riproposta del sogno americano, hanno pensato di fare fortuna con le proprie forze e intelligenze intraprendendo le attività autonome più svariate o spingendo ulteriormente quelle che avevano già intrapreso. Ma questa intraprendenza non si basava per lo più su competenze acclarate   – chi le aveva se mai l’aveva già fatta fortuna –  spesso era puro velleitarismo portato avanti con fiducia incosciente. E dunque furono pochi quelli che riuscirono a far fruttare le loro imprese, anche se il mercato sempre più dilagante del superfluo, dell’effimero e del cattivo gusto offriva possibilità anche ai meno dotati, spesso anche ai più stupidi, di riuscirci. E questo perché c’era in atto – con il dilagare onnipervasivo del consumismo – un processo di regressione generale della cultura delle società sviluppate, in cui, soprattutto per le masse, essere e  sapere continuavano a contare sempre meno del miraggio dell’avere.

Ma ciò che avviene negli USA e in Gran Bretagna in quegli anni dilaga presto sul loro esempio in tutto il mondo occidentale. La vecchia sobrietà della provincia dell’Europa Occidentale, che era sempre stata il riferimento etico ed esistenziale della sua politica ed economia, si americanizza, travolta anch’essa dal principio universale del consumo, dalla democrazia della merce resa legge morale ed economica. E così  il cittadino che, prima, forse si era sentito un po’ sempre suddito, ma anche tutelato, ora si sente protagonista di una rivoluzione che lo rende davvero uguale a tutti gli altri, che gli dà la possibilità, se ne ha la capacità, di fare fortuna, e nessuno ormai più dubita di non averla dal momento che vede tanti suoi simili, che magari considera meno capaci di lui, farla in pochissimo tempo (che si dimostra magari poi effimera, ma quel che conta è la prima apparenza…). E, se non lo vede nella sua realtà di paese o di quartiere, ci pensa la nuova forma di dominio dei popoli, la comunicazione globale, a farglielo vedere, con annessi e connessi di belle donne e ville megagalattiche, il migliore specchietto per le allodole per incantare i gonzi.. Una comunicazione che per essere suadente cerca di andare incontro alla gente sia nel linguaggio, che s’involgarisce, che nella proposta, spesso demenziale, in modo che tutti la possano capire, anche i più ignoranti. Si mira al ventre del popolo bue per imbonirlo e avere sempre più audience, bombardandolo in tutta questa operazione con una pubblicità incessante che mira a creare status diffusi di appartenenza e sindromi di dipendenza.

Nasce qui la fortuna dei maghi della televisione, da Murdoch[7] a Berlusconi, che in poco tempo egemonizzano l’immaginario e i cervelli di milioni di cittadini che ormai si rivolgono esclusivamente alle trasmissioni che essi propinano per incrementare la loro cultura che diventa prevalentemente televisiva, linguisticamente povera, con un abuso di frasi fatte pubblicitarie utilizzate poi nella comunicazione interindividuale. È il processo di alienazione delle menti che sostituisce man mano quello delle braccia proprio dell’industrialismo ormai agli sgoccioli nei paesi a economia avanzata. È la vetrina per costruire consenso a buon mercato da parte dei grandi comunicatori. Se poi si offre a questa massa sempre più ignorante nonostante la crescita esponenziale della scolarizzazione qualche sogno legato al mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, il consenso diventa addirittura fideistico. Ecco dunque le varie trasmissioni in cui il popolo è protagonista, ripreso dall’occhio magico della telecamera di fronte alla quale perde ogni inibizione, si mette a nudo e “lava i panni sporchi” in pubblico contraddicendo la sua tradizionale discrezione a parlare di sé. Ma anche il tifo delirante per la squadra di calcio che “tremare il mondo fa”, zeppa di campioni pagati non si sa come, ma che fa incetta di trofei e vince, come vuole il suo patron, perché nella vita – lui lo ripete incessantemente – ciò che conta è solo vincere, altro che De Coubertain!

Ma questo non avviene solo nel mondo Occidentale. Con la caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi comunisti si assiste a un trasformismo fulmineo dei membri delle loro nomenclature che si riciclano nelle nuove entità statali pseudo liberali prendendo in mano soprattutto la comunicazione. Gli addetti stampa degli ex leader comunisti diventano proprietari dei primi giornali e delle prime televisioni libere, anche loro hanno capito in tempo come procrastinare il loro potere nelle nuove società improntate al libero mercato. Anche loro sono consapevoli che per continuare a comandare devono guidare il consenso con gli strumenti delle tecnologie avanzate della  comunicazione. E dal dominio delle menti e dell’immaginario alla politica il passo è breve: non c’è neppure da costruire un partito tradizionale, la gente vuole altro ormai, cerca un capo carismatico a cui affidarsi, che mescoli ideologicamente in modo ambiguo passato, presente e futuro. Che sia giusto o meno non conta, l’importante è che sia qualcuno capace di fare i suoi interessi, legalmente o illegalmente, e che lasci fare agli altri i loro, senza mettere tanti lacci e vincoli come vogliono i pedanti fautori della legalità.

È quello che avviene anche in Italia con Berlusconi. I politici tradizionali non sono più in grado di garantire gli interessi di questa generazione di imprenditori rampanti ai limiti della legalità, di coloro che rivendicano di essere i veri produttori del PIL del paese. Ci vuole una mano imprenditoriale adeguata per raddrizzare la barca e allora lui, il cavaliere, decide “di scendere in campo” per salvare l’Italia. Crea un partito dal nulla – uno slogan per nome – che non esiste nelle strutture, ma è rappresentato da lui stesso in tutto e per tutto e questo basta e avanza. Del resto la gente non aspetta altro, vuole qualcuno che faccia il capo e si assuma tutte le responsabilità, che semplifichi la nomenclatura politica svuotandola di significato. E lui lo fa. Disprezza il Parlamento, disprezza i giudici, lancia la crociata anticomunista quando il comunismo non c’è più. E viene immediatamente divinizzato dai suoi seguaci, dalla vecchina che segue i programmi commerciali delle sue TV ai giovani rampanti che sognano un’avventura con le tante “veline” dei suoi programmi. Si arriva a dire che è bello, buono, intelligente, persino che è alto (e ce ne vuole!), e la gente crede alla promessa che ha fatto di cambiare la vita del paese. In campagna elettorale comincia a dare i numeri: un milione di posti di lavoro in più, pensioni minime a mille Euro, detassazione delle imprese (soprattutto le sue), sgravi fiscali sulle case (lui ha una villa valutata undici milioni di Euro, poverino!), libertà di falsificare i bilanci (lui sa come farli quadrare), velocizzazione dei processi autorizzativi da parte della burocrazia dello Stato (in pratica mano libera ad agire senza vincoli sociali e ambientali) e così via su questa lunghezza d’onda.

È un delirio di onnipotenza il suo, tante promesse che poi non vengono mai mantenute, ma questo proclamare roboante piace alla gente, soprattutto se le dice che pagherà meno tasse.. E così si accalca nel suo partito, c’è spazio per tutti lì dentro, non conta avere delle competenze tanto c’è il capo che sa già tutto. E poi, basta volere, tutti possono fare le cose, che cosa ci vorrà bene per essere all’altezza di entrare in Parlamento o in Regione o in Provincia o in Comune? Si fa a gomitate per entrarci, la priorità ce l’hanno le belle donne, sono il suo tasto debole o forte, a seconda dei punti di vista. Che fino al giorno prima hanno fatto la velina o la valletta, di politica non sapevano nulla, ma tanto c’è lui, il cavaliere, che tutto “vede” e tutto “provvede”.E i peones gongolano.

Ma come reagiscono gli altri, i nemici storici dei vari “uomini del destino”? A parte piccole frange che si arroccano su posizioni sclerotiche e intransigenti, la maggior parte dei “quadri” della Sinistra storica, sia ad alto che a basso livello, tira un sospiro di sollievo. Finalmente anch’essi, pur considerandosi alternativi al campione nostrano del liberismo, si sentono più liberi dai vincoli ideologici tradizionali e condividono con la controparte la politica come carriera con tutti i benefici individuali che ne derivano Addio alla diversità che rivendicavano i Resistenti o ancora negli anni Settanta il PCI di Enrico Berlinguer! Si riconosce una dignità all’avversario non perché lo si stimi politicamente, ma per sentirsi legittimati a certi comportamenti che un tempo la comunità dei partiti avrebbe stigmatizzato come personali e deontologicamente scorretti. Si può così sfoggiare il proprio privilegio con impudenza e ci si oppone a ogni suo ridimensionamento. E si sta al gioco delle parti. Che, per un ventennio, vuol dire l’egemonia – che sia al governo o all’opposizione – dell’uomo del destino, anche perché non lo si può accusare di comportamenti che sono stati fatti propri.

È in questo scenario che piomba come un uragano l’armata Brancaleone del partito del comico. Anch’essa improvvisata, porta in Parlamento a forza di urli e di ridicole kermesse una miriade di frustrati che non hanno mai fatto politica, ma che rivendicano questo come purezza (o incompetenza?) e ne fanno un simbolo della loro azione politica. Un po’ come dicevano  i membri delle band punk storiche, tu intanto suona, poi imparerai. Loro si ripromettono di “aprire il Parlamento come una scatola di tonno”, renderlo trasparente agli italiani, sono contro la politica come carriera, tutti pronti a ritornare in produzione dopo due mandati. E soprattutto a ridimensionare entro quei termini i privilegi dei politici, a cominciare dagli emolumenti e i benefit che ricevono in abbondanza. Sono spavaldi dopo la vittoria alle politiche del 2018, non sanno nulla di politica, ma promettono di cambiarla radicalmente. “Graecia capta ferum victorem cepit” scrisse Orazio nelle sue Epistole[8], e questo ci pare sia avvenuto per tutti quei neo onorevoli velleitari che strada facendo hanno riposto nei loro cassetti quei seriosi propositi. E l’hanno fatto senza soddisfare lo spirito del resto della frase oraziana che dice “et artes / intulit agresti Latio”, perché loro hanno portato di tutto in Parlamento tranne proprio l’arte e la cultura in generale.

Questo è il quadro della politica italiana della cosiddetta seconda repubblica (già si parla di terza): abbiamo fatto del Parlamento “un bivacco di manipoli” di ignoranti che stanno distruggendo la democrazia così come fece il più noto capo di manipoli, quello del Ventennio. E se siamo ridotti così è perché anche noi, come dice O’Hagan, “non siamo mai stati così corrotti, così persi, folli ed egoisti come adesso” e tutto questo affonda anche da noi le sue radici negli ultimi due decenni del Novecento quando sia la cultura elitaria che quella di massa hanno fatto di tutto per distruggere la comunità. E ci sono riuscite perfettamente, creando da un lato solitudine e dall’altra presunzione, con una miriade di persone che ha potuto pensare che le cose si potessero fare anche senza nessuna competenza. Anzi, si è irriso alla competenza, come un fardello inadeguato all’agire libero contemporaneo. E così miriadi di giovani si sono sentiti politici, attori, registi, scrittori, musicisti, critici, naturalisti, antropologi, sociologi, psicologi, creativi in genere, dopo percorsi durati lo spazio di un mattino, forti del loro ego smisurato e individualista, senza tuttavia rinunciare sdegnosi, pur di riuscire a collocarsi con la loro mediocrità individuale da qualche parte, alla classica raccomandazione, ai santi in paradiso e al più umiliante ruffianismo. È venuta meno, infatti, quella salutare censura della comunità che era il riconoscimento delle effettive capacità del singolo, che emergevano da un confronto serrato tra idee e modi di fare e dovevano necessariamente essere le più ampie possibile per rappresentare la sintesi della volontà collettiva. E chi riusciva ad emergere aveva senz’altro questi attributi  e doveva portare avanti tramite essi le idee che in seno al gruppo erano risultate maggioritarie e fornire poi resoconto agli altri sui risultati raggiunti. Era la prassi della democrazia, che tramite lo scambio e il confronto faceva crescere tutti, il latore delle idee e chi le aveva discusse con lui. Che diventavano competenti, perché soltanto tramite l’analisi e il confronto si diventa tali.

E invece oggi l’individuo, anziché cercare di migliorare le sue conoscenze e le sue capacità per condividerle nel gruppo, si costruisce una realtà virtuale sui social con l’illusione di vivere un’esperienza comunitaria che, alla prova della realtà concreta giornaliera, naufraga miseramente; o accetta un rapporto di subordinazione con un capo ricco e carismatico pur di raggiungere uno scranno parlamentare che vale economicamente la sistemazione per la vita e ne mette in pratica acriticamente i “pizzini” per non perderne il favore e i ricchi emolumenti; oppure entra a far parte di una nomenclatura di Partito non per merito delle sue qualità politiche, ma per il suo cursus honorum di fedeltà alla linea del capo del momento o per la sua capacità di cogliere l’attimo per riciclarsi qualora il capo cambi.

Come possono individui di questa risma essere in grado di leggere la realtà economica e sociale che stiamo vivendo e di trovare concretamente soluzioni ai suoi problemi che abbiano un valore per tutti e non solo per pochi o addirittura per qualcuno soltanto?

POST SCRIPTUM

Vista l’imminenza delle elezioni, non posso e non voglio esimermi dal commentare la “discesa in campo” del terzo polo. Dopo passate baruffe chiozzotte, Renzi e Calenda sono finalmente insieme. Era ora, perché noi tutti non stavamo aspettando altro. Erano le loro “competenze” che ci mancavano, quelle di due signorotti rampanti autoproclamatisi come i nuovi scienziati della politica, che però politica non l’hanno mai fatta. Ovvero non si sono mai confrontati con altri sulla base di idee concrete che non fossero  slogan o facezie, ma hanno twittato tanto, battute da boyscout o espressioni da reality show, mai un’analisi politico-sociale degna di tale nome, slogan, sempre slogan, magari in inglese senza conoscerlo (il Calandrino fiorentino) o di economia senza aver mai lavorato (entrambi). E ora, dopo mille giravolte, sconfitte clamorose, fondazione di partiti personali, si presentano insieme per raddrizzare l’Italia con un programma elettorale che è la cosiddetta “agenda Draghi”, che è tutto tranne che politica. Sono i conti, più o meno ben fatti, di un banchiere che oltretutto era arrivato al governo per sostituire loro, gli enfants – nemmeno più tanto – prodige della politica italiana. A vederli appaiati in televisione sarebbe un’occasione di studio non indifferente per il compianto Lombroso, che avrà anche esagerato nelle sue teorie, ma in qualcosa ci aveva azzeccato, basta guadare le loro facce. Se poi il secondo si presenta in televisione in mezzo a Maria Grazia Gelmini e a Mara Carfagna il quadro è completo, siamo all’avanspettacolo di periferia.

Ecco che ritorna prepotentemente la domanda che si ponevano Černyševskij[9] e Lenin: che fare? A settembre ci saranno le elezioni e il parterre è questo: vecchi rincoglioniti di lungo corso, duri e puri dell’Italia sovrana, riformisti che innanzitutto dovrebbero riformare se stessi, uomini qualunque che a un certo punto delle loro vite banali si sono trovati inconsapevolmente seduti in Parlamento. Il ritratto della nostra italietta suddita e ubriaca di appariscenza, di ignoranza, di volgarità.

Con che coraggio uno va a votare qualcuno di questi?


[1] Andrew O’Hagan, scrittore scozzese nato a Glasgow nel 1968. Autore di Ai nostri padri, Frassinelli, Milano 2001, Bravissima, Frassinelli, Milano 2004,  Stanni vicinoVita e opinioni del caneMaf e della sua amica Marilyn Monroe, Fazi, Roma 2011, Stanni vicino, Fazi, Roma 2013, Effimeri, Giunti Bompiani, Firenze-Milano 2022.

[2] Margaret Hilda Thatcher (Grantham13 ottobre 1925 – Londra8 aprile 2013), è stata Primo Ministro del Regno Unito dal 4 maggio 1979 al 28 novembre 1990.

[3] Ronald Wilson Reagan (Tampico, 6 febbraio 1911 – Los angeles, 5 giugno 2004) è stato il 40° presidente degli Stati Uniti d’America dal 1981 al 1989

[4] Anthony Charles Lynton Blair, detto Tony (Edimburgo, 6 maggio 1953) è stato Primo Ministro del Regno Unito dal 2 maggio 1997 al 27 giugno 2007.

[5] Viene così definita una scuola di pensiero economico liberale e liberista formatasi presso quell’università americana negli anni 30 e sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni ’50 sotto la guida di Milton Friedman.

[6] Milton Friedman (Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006), economista statunitense, principale esponente della Scuola di Chicago. Fondatore del pensiero monetarista, fu insignito del Premio Nobel per l’economia nel 1976

[7] Keith Rupert Dylan Murdoch (Melbourne, 11 marzo 1931), editore e imprenditore televisivo australiano naturalizzato statunitense. Dopo aver iniziato con giornali e stazioni televisive oggi è uno dei più importanti imprenditori del mondo nel digitale terrestre e nel campo cinematografico. Il suo gruppo editoriale raggiunge ogni giorno circa 5 miliardi di persone

[8] Quinto Orazio Flacco, Epistole, Garzanti, Milano 2012

[9] Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, (Saratov24 luglio 1828 – Saratov29 ottobre 1889), è stato un filosofoscrittore e politico russo ispiratore del movimento rivoluzionario democratico degli anni sessanta dell’Ottocento. Arrestato nel 1862 per attività sovversiva, fu processato e condannato a sette anni di reclusione e in seguito a diciotto di confino che scontò prima in Siberia e poi ad Astrachan’. Morì quattro mesi dopo essere stato liberato

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