La radice attiva della Memoria

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“Io sono una forza del Passato. // Solo nella tradizione è il mio amore. // Vengo dai ruderi, dalle chiese, // dalle pale d’altare, dai borghi // abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, // dove sono vissuti i fratelli. // Giro per la Tuscolana come un pazzo, // per l’Appia come un cane senza padrone. // O guardo i crepuscoli, le mattine // su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, // come i primi atti della Dopostoria, // cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, // dall’orlo estremo di qualche età // sepolta. Mostruoso è chi è nato // dalle viscere di una donna morta. // E io, feto adulto, mi aggiro // più moderno di ogni moderno // a cercare fratelli che non sono più”.[2]

In questa poesia Pier Paolo Pasolini compie un viaggio nella Memoria, che evidenzia quanto essa sia importante per riflettere sul presente e per costruire il futuro. Senza di essa, infatti, (Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta), senza proteggere le radici (Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi), si corre il rischio di finire nell’anonimato della Dopostoria, là dove il passato non esiste più.

Per parlare, dunque, del ruolo della Memoria nel destino dei popoli – se accogliamo la suggestione di Pasolini – occorre innanzitutto distinguerla dalla Storia. La Storia, infatti, la scrivono le élites, mentre la Memoria è l’insieme dell’immaginario, della tradizione orale e della cultura materiale del territorio che custodiscono e si tramandano i popoli, spesso in aperto dissenso con la Storia. Le élites tutt’al più usano la Memoria, spesso falsificandola, per convincere i popoli ad accettare la loro Storia e a fare i sacrifici necessari per il conseguimento dei loro obiettivi e non certamente di quelli dei popoli. Ma hanno gli strumenti suasivi e coercitivi per farlo, per capovolgere anche situazioni che sembrerebbero a loro sfavorevoli. Ne è stata un grande esempio la prima guerra mondiale. Allora la stragrande maggioranza delle popolazioni e persino delle rappresentanze politiche (in particolare i partiti socialisti e di ispirazione cristiana) erano contrarie alla guerra a tal punto che pareva impossibile che il conflitto scoppiasse. E invece le élites dominanti dei vari stati con massicce campagne di stampa della maggior parte dei giornali da esse controllati e violente manifestazioni di piazza organizzate dai nazionalisti, costrinsero i popoli alla guerra contro la loro volontà agitando lo specchietto per le allodole dei benefici che ne avrebbero avuto. Quali poi possano essere i benefici di una guerra lo racconta bene Brecht in una sua famosa poesia[3].

Ma, oggi, può ancora avere un ruolo la Memoria in questo sfascio totale di relazione intra e intergenerazionale in cui non esiste nemmeno più la percezione del presente in quanto si autodivora incessantemente ed è subito un passato anonimo, senza Memoria?

Viviamo in una società che ha standardizzato i comportamenti, che, come sosteneva Pasolini nelle “Lettere Luterane”, ci ha instillato, “un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante… che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese”. Quella società che Bauman[4] ha definito “liquida” in cui l’unico valore consolidato e unificante è il consumo, a tal punto che tutto diventa merce, anche l’essere umano. È la crisi del concetto di comunità che lascia il posto a “un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada, ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile… si perde la certezza del diritto e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti i costi, l’apparire come valore, e dall’altro il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo”[5].

Quella società delle democrazie storiche e consolidate dell’Occidente che hanno tentato di esportare la democrazia non per fini idealistici, ma semplicemente per conquistare nuovi mercati, perché soltanto dove vige la democrazia è possibile il libero mercato delle merci e il loro consumo seriale. Con risultati catastrofici per i presunti “liberati” che, dopo il fallimento dell’esportazione, sono ripiombati nei gironi infernali danteschi del ritorno al potere delle vecchie autocrazie tribali.

Mai, dunque, come in questo presente senza tempo, l’uomo ha vissuto con l’angoscia, direbbe Heidegger[6], di essere gettato nel mondo e di dover vivere un’esistenza che si fonda sul nulla, sull’incertezza che è l’unica certezza, e di non essere più in grado di trovare strategie che gli consentano la comprensione di ciò che lo circonda, sia esso materiale o immateriale. Di non avere radici a cui richiamarsi o di averle dimenticate per quel mutamento di immaginario che rende difficile la trasmissione di culture e di valori imperniati su modi di vivere ormai abbandonati e sistemi di relazione arcaici e non integrabili nelle tecnologie della comunicazione contemporanea.

Ecco che allora, se l’uomo non riesce ad attingere a questo sapere pregresso che ha accompagnato i popoli attraverso i secoli, rischia di brancolare nel vuoto del sentimento e di diventare semplice ingranaggio del dominio incontrastato della tecnocrazia. Solo in quella Memoria, infatti, può trovare gli strumenti critici per difendere ciò che resta del suo umanesimo, per opporsi alla progressiva standardizzazione robotica della sua esistenza che lo porta a non riconoscersi più e a non riconoscere gli altri come suoi interlocutori e sodali.

Nel fare questo, però, non deve indugiare, romanticamente ammaliato, sugli aspetti nostalgici della Memoria, quella rievocazione folcloristica e di costume che soddisfa il suo ego orfano, ma soprattutto il piacere voyeuristico del turista e riempie tutt’al più lo spazio e il tempo di una festa comandata. Questi sono aspetti che anziché offrire strumenti critici per affrontare il futuro alla luce della Memoria rischiano di ghettizzarla in una rappresentazione sterile, fine a se stessa, destinata a trasformarsi in una caricatura. Sono dunque assolutamente sterili, “statici”, buoni soltanto per appagare il ricordo dell’immaginario. Ma se la Memoria rimane statica, “inerte”, non può resistere al passaggio generazionale e men che meno in un’epoca come la nostra che si fonda sul consumo reiterato e forsennato di merci, di valori e di idee.

E allora quali sono concretamente le azioni che possono salvare la Memoria e renderla “attiva” per forgiare il futuro della “Storia”?

Innanzitutto occorre dire che ci sono Movimenti e Associazioni[7] diffusi in vari paesi del mondo che si battono giorno dopo giorno per salvaguardare lingue, sementi, pratiche di lavoro e le culture ad esse connesse, difendendo tenacemente la biodiversità e la multiculturalità del pianeta. E che il fulcro di questi Movimenti, spesso assolutamente informali, sono milioni di piccoli contadini e artigiani che continuano a compiere il gesto dei padri per tradizione familiare o per scelta, i quali non si riconoscono nella società “liquida” del presente, ma vogliono ancora vivere e produrre secondo quei principi umanistici e solidali che, attraverso la storia delle nostre comunità, ci sono stati tramandati dall’antichità classica. E lo fanno sia seminando grani antichi la cui farina possono mangiare tutti senza manifestare inappetenze, sia utilizzando pratiche di lavoro agricolo e artigianale millenarie che vanno in senso opposto alla logica dello spreco e dello scarto, sia parlando o riparlando lingue che consentono di moltiplicare l’immaginario e di “leggere” i territori in modo morfologicamente più corretto e funzionale. E nel fare tutto questo provano anche  inevitabilmente una soddisfazione emotiva, romantica – mica sono dei robot – ma soprattutto hanno la consapevolezza di compiere azioni che, oltre a “passare leggere”[8] sulla Terra, sono utili ed essenziali per ridisegnare un futuro a misura d’uomo che garantisca e fondi una nuova relazione di empatia tra l’io e l’Altro.       

E qui viene fuori il problema di fondo che pone l’agire secondo Memoria: se noi non cambiamo il nostro modello di sviluppo, ogni richiamo alla nostra tradizione sociale e di lavoro diventa vano perché essa è assolutamente incompatibile con le dinamiche di lavoro e di organizzazione sociale del cosiddetto “postindustrialismo”. Agire attivamente secondo la Memoria vuol dire recuperare una dimensione dell’esistenza che rimetta al centro l’uomo e le sue aggregazioni e gli dia il tempo per imparare, per lavorare, per scambiare opinioni, per stare in famiglia e in comunità. Per ritrovare una radice al suo agire, che non può essere virtuale, fondata sull’effimero della moda del presente, ma deve essere concreta, legata al vissuto di lavoro e di esperienza delle generazioni precedenti, memori di ciò che diceva San Bernardo: noi siamo dei nani sulle spalle dei giganti e soltanto grazie ad essi possiamo vedere più lontano, non per la maggiore acutezza della nostra vista, ma proprio perché abbiamo la fortuna di poggiare sulle loro spalle.[9]

Sulla base di questa esperienza millenaria, che è oggi l’unica nostra certezza, dobbiamo innanzitutto recuperare il rapporto intergenerazionale, ristabilire cioè quel dialogo e quella sinergia tra la “forza” dei giovani e “l’esperienza” degli anziani che è sempre stata la “miscela” del progresso dei popoli. E così anche la solidarietà sociale e il mutualismo che hanno caratterizzato nei secoli le comunità locali. Ridare, dunque, un’identità all’essere popolo, scevra da fondamentalismi escludenti e fondata su una mediazione tra tradizione locale e cultura universale. Che abbia in sé tutto il patrimonio delle radici arcaiche, ma che sappia coniugarlo con i principi e i valori contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e professati nel tempo da certo umanesimo religioso.

E con tutto questo bagaglio di cultura e di Memoria costituire una rete globale di relazione tra le comunità che lottano in qualsiasi luogo della Terra contro l’arbitrio e il consumo, una sorta di Movimento pacifista non violento e ambientalista internazionale che agisca politicamente – assumendo anche responsabilità dirette di governo – per fermare le politiche dissennate di sviluppo, per affrontare realisticamente il mutamento climatico e per ridistribuire equamente le risorse del pianeta nei limiti della compatibilità ambientale. Se non saremo in grado di fare questo, ogni altro sforzo di recuperare la biodiversità della Terra e di cambiare il nostro destino rimarrà un sogno e finirà anch’esso inghiottito come tutti noi nella catastrofe che continuiamo ad esorcizzare, ma che si avvicina implacabile e sempre più incombente.


[1] Relazione tenuta il 14 maggio 2022 nell’ambito di Imaginà. L’avvene pussibule. Journée lycéenne en faveur de la biodiversité, presso il Théatre Municipal de Bastia.

[2]Pasolini, Pier Paolo, Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964

[3] Brecht, Bertolt, La guerra che verrà, in “Poesie e canzoni”, Einaudi, Torino 1968

[4]Bauman, Zygmunt (1925 – 2017), sociologo polacco teorico della “società liquida”. Vedere in particolare il suo Modernità liquida, Laterza, Bari 2011

[5] Eco, Umberto, nella rubrica “bustina di Minerva” del n. 22 del settimanale  “L’Espresso” (4 giugno 2015) a proposito del concetto di “società liquida” coniato da Bauman.

[6] Heidegger, Martin, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005.

[7] Una fra tante Terra madre, nata nel 2004 su iniziativa di Slow Food, una rete mondiale di soggetti individuali e collettivi che s’impegnano, ognuno nel proprio contesto geografico, a salvaguardare le produzioni agroalimentari e le culture connesse dallo strapotere dell’agricoltura intensiva di grande scala e dell’industria alimentare di massa.

[8] Espressione mutuata dal bellissimo libro di Atzeni Sergio, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso Edizioni, Nuoro 2000, in cui l’autore narra in forma romanzata la Storia e la Memoria collettiva della Sardegna attraverso il racconto orale di un “custode del tempo”.

9 Vedi Giovanni di Salisbury, Metalogicon (III, 4): «dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes».

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