La crisi ucraina e la guerra di Gaza, oltre a ripresentarci scenari apocalittici che noi “privilegiati” europei non immaginavamo più di dover vedere, hanno fatto risuonare più forte che mai nel recente passato le trombe del nazionalismo. L’Europa è scossa dall’incapacità di intervenire diplomaticamente nel conflitto russo-ucraino e allora si rifugia nel vecchio adagio della politica nazionalista che è sempre stato quello di rinforzarsi militarmente e preparare la guerra. E immediatamente le gerarchie militari tornano in auge e così le forze politiche che del nazionalismo sono sempre state la bandiera. E ritorna anche il leitmotiv del nemico, basta con le politiche di falsa distensione e di sorrisi forzati, bisogna mostrare i muscoli anche quando non si hanno. E spendere e spandere in armamenti, pazienza se poi mancano i soldi per la sanità e per il sociale. Del resto è sempre stato così nelle economie di guerra. E guai se qualcuno prova a dire il contrario, viene tacciato di tradimento, di combutta con il nemico o presunto tale. È la politica del cervello all’ammasso, delle forzate generalizzazioni, della criminalizzazione del dissenso. È la morte della democrazia.
Ma forse è proprio questo l’inesorabile destino delle democrazie nazionali che, anche quando rivendicano ripetutamente questa loro democrazia, cercano però sempre di sostanziarla con un modello unico di popolo che è quello di chi tifa per la squadra nazionale di calcio e in questi giorni sarebbe disposto a menarsi con i tifosi avversari in nome della propria nazione. Un popolo un tempo unificato dalle ideologie politiche totalitarie, oggi dal consumismo del capitalismo avanzato che vuol farci credere di aver creato il paese di Bengodi. E giù con le illusioni del successo mediatico e artistico, tutti che aspirano a diventare cantanti, attori, comici e musicisti, pochi che aspirano a fare il gesto dei padri, sia esso un destino di vigna e di campo o di laboratorio artigianale. Poi si scopre che ci sono una miriade di falliti, coloro che sono caduti pesantemente dalle loro illusioni e hanno maturato rancori repressi destinati a esplodere nelle forme più disparate di violenza contro se stessi o contro gli altri. Una società che s’incattivisce giorno dopo giorno e rappresenta un terreno fertile per gli incombenti venti di guerra.
E in questo scenario di sopraffazione da parte dei vari pensieri unici chi ne paga le conseguenze maggiori sono le comunità territoriali che in questi anni erano riuscite all’interno dei loro stati nazionali a conquistare diritti e spazi di autonomia. Dai catalani ai corsi, dai bretoni agli alsaziani, dai galleghi ai lapponi, dai ruteni ai valacchi e così via, tutta quella miriade di minoranze che sembrava potessero riproporre la loro diversità culturale e rivendicare uno spazio politico autonomo verranno conculcate nei loro diritti a esistere come comunità organizzate e saranno costrette nuovamente a una marginalità succube e mal tollerata. Verrà in questo modo cancellata quella multiculturalità dei popoli a cui si riferiva Pasolini[1], che, per quel che riguarda l’Italia, neppure il fascismo era riuscito a cancellare, ma che il consumismo capitalistico aveva spazzato via nel giro di una generazione, sostituendo a radici millenarie quelle effimere e crudeli del mercato. E chi proverà a opporsi verrà criminalizzato come un traditore della patria, quello stato nazione che considera i suoi cittadini ancora come potenziali soldati per una guerra prossima futura.
Che devono fare, dunque, tutte queste minoranze per sfuggire alla logica della forzata irreggimentazione nelle file del nazionalismo? Innanzitutto trovare al loro interno il massimo della coesione, abbandonando particolarismi o diatribe individuali e di gruppo che spesso caratterizzano la vita delle loro comunità. Riscoprire le ragioni storiche dello stare insieme e il diritto non scritto che ha caratterizzato il patto umanistico della collettività basato sulla solidarietà inclusiva e sul senso di responsabilità reciproco dei componenti, quella sorta di fratellanza che, al di là degli eventuali contrasti personali, riconduceva tutto al bene comune. Ecco, se c’è un tarlo che nella modernità ha incrinato questa fratellanza, è quello della fortuna personale secondo i dettami del personalismo liberistico, che è tutto rivolto verso l’esterno e, se si ritorce all’interno, mina l’egualitarismo della relazione. Perché è impossibile che la fortuna individuale – nello scenario di uno Stato Nazione, che magari fa la voce grossa, ma che è succube di una finanza e di un mercato ormai sempre più globalizzati – abbia interesse politico e sociale a preservare gli equilibri fondamentali e necessari di una piccola comunità. Se mai tende a egemonizzarla e a trasformarla in un feudo personale.
Per riaffermare, dunque, il ruolo socialmente fondante di una comunità locale, non bastano le manifestazioni folcloristiche, i canti e i balli tradizionali, i costumi o il recupero forzato di forme di culto, ma occorre un impegno politico e civile che riaffermi il diritto alla diversità in tutte le sue forme e sia pronto a resistere collettivamente a tutti i tentativi prossimi venturi di omologazione nazionalistica. E bisogna coordinare questo impegno con quello delle altre comunità sparse in Europa e nel mondo, in modo da dare risposte comuni ai diversi tentativi che verranno messi in atto per “forgiare” o “riforgiare” il popolo degli Stati Nazione. Un impegno che deve essere assolutamente pacifico e non violento, l’unica proposta di convivenza umana che può salvare il mondo dalle guerre e dalla ormai possibile catastrofe nucleare.
E qui torna in ballo la questione della radice, del legame con la terra e con un luogo particolare della Terra, che è il riferimento indispensabile di una comunità. Senza questa radice, la vita “galleggia” nella palude globale della società liquida, non ha approdi né porti sicuri. Passato il tempo della grande illusione dell’industrialismo, durante il quale qualcuno ha creduto di poter trovare radice e rappresentanza nella megalopoli e nella fabbrica di un padrone sempre più incorporeo e impercettibile, l’uomo occidentale si è trovato in balia di un mercato mutevole e spietato che non gli ha consentito e non gli consente di raccapezzarsi tanto è veloce il cambiamento, caratteristica fondamentale della speculazione finanziaria che gioca a flipper con le crisi economiche e con le vite di chi ne subisce le conseguenze. E in questo clima di confusione, di ritorno all’hobbesiano homo homini lupus, solo una radice millenaria può resistere allo sbando. L’aveva scritto chiaramente Ernesto De Martino[2], fondatore dell’antropologia e del documentario etnografico in Italia: “… alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una patria e di mediare, attraverso la concretezza di questa esperienza, il proprio rapporto col mondo. Coloro che non hanno radici, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale». La patria a cui faceva riferimento De Martino non era quella fatua e propagandistica della nazione, ma era il legame con la terra madre in un posto qualsiasi del mondo. Legame con la terra per radice originaria, anche come utopia di un possibile ritorno, o identificazione migratoria con la nuova radice, un baricentro necessario per non essere risucchiati nel vuoto esistenziale dello sradicamento.
Ma una radice, qualunque sia la sua genesi, è qualcosa che ci segna dal basso, che non è normata per legge, ma appartiene a noi singoli individui e nessun potere ci può imporre. Ed è ciò che ci spinge a fare comunità, a condividere idee e problemi spontaneamente, per idealità e per necessità. È non sentirsi soli in un mondo che ha fatto dell’esasperazione individualistica un sistema economico e di governo e che ci ripete quotidianamente che “tu”, individuo, devi metterti in competizione e dimostrare di essere migliore degli altri, a qualunque costo, magari anche barando. Se poi fallisci, la colpa è solo tua, sei anche libero di sfracellarti.
Noi dobbiamo rifiutare tutto questo. Tornare a cercarci, a fare gruppo, ad agire dal basso per salvaguardare la nostra identità umana che, anziché escludere sulla base di presunte appartenenze etniche, include su un principio di radice territoriale che è nello stesso tempo particolare e universale. Perché tutte le radici si toccano, come sosteneva Léopold Sénghor, e “la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere”[3].
[1]Pasolini, Pier Paolo, articolo Il vuoto del potere in Italia ovvero l’articolo delle lucciole, Corriere delle Sera, 1 febbraio 1975
[2]De Martino, Ernesto, L’etnologo e il poeta, prefazione al libro di poesie di Albino Pierro, Il mio villaggio, Cappelli, Bologna 1959
[3]Sénghor, L. S., L’Opera poetica, traduzione di Mario Roffi, Corbo e Fiore Editore, Venezia 1988.