La crisi che sta vivendo ormai da anni il cosiddetto mondo occidentale pare giunta al suo culmine. Qualsiasi settore della vita economica o sociale si prenda in considerazione si colgono immediatamente le crepe sempre più profonde che lo stanno devastando, che hanno una ragione ben precisa nel principio su cui il mondo occidentale ha basato la sua crescita e il suo dominio sul mondo. Dalla rivoluzione industriale in poi esso ha coniugato per se stesso una forma di sviluppo basata sulla produzione sempre più frenetica di beni di consumo “usando” il resto del pianeta come luogo per reperire risorse (meglio sarebbe dire “per appropriarsi indebitamente di risorse”) e come mercato di espansione del surplus della sua produzione. L’ha fatto dall’alto della sua concezione univoca del mondo, considerato come un grande mercato in cui la crescita civile sarebbe andata di pari passo con quella economica e politica, basata sull’esportazione della democrazia liberale e sul libero scambio che, almeno inizialmente, lo vedeva inevitabilmente favorito. E per raggiungere questo suo obiettivo non si è posto scrupoli, se non quelli di un’opinione pubblica talvolta indignata, ma assolutamente ininfluente sulle decisioni dei vertici, giungendo a favorire colpi di mano e rovesciamenti di governi legalmente eletti qualora essi contraddicessero la sua logica di dominio mondiale.
Ma, di pari passo con tutto questo, anche le politiche economiche e culturali all’interno dei paesi del mondo occidentale si sono sviluppate in senso sempre più liberistico, rendendo il consumo di beni superflui una sorta di credo religioso, come l’unica forma di liberazione dalla subalternità e dal bisogno. L’affermazione individuale ad ogni costo, anche ai limiti della Legge, è diventata una sorta di unzione, di sinonimo di capacità da iniziato, di diversità meritocratica sbandierata narcisisticamente. Pian piano, a partire soprattutto dai fatidici anni ottanta, quelli per intenderci di Reagan e della Thatcher, il sociale, il welfare, è stato visto come una palla al piede delle società liberali, una zavorra umana che non doveva più condizionare la libertà dell’economia né pesare sui bilanci degli Stati – divenuti organismi “leggeri”, sempre meno regolatori – ma arrangiarsi nei modi tradizionali del passato, in bilico tra miseria e delinquenza, in quanto costo sociale inevitabile e, secondo i sostenitori del liberismo, sacrificabile perché l’economia continuasse a progredire.
Sono queste le logiche economiche e di pensiero che ci hanno portato sull’orlo del baratro che stiamo vivendo. La società occidentale è diventata a tutti gli effetti “liquida” come sosteneva Bauman, l’individuo “naviga” in essa con gli occhi bendati degli specchietti delle allodole delle promesse, ormai sempre più inverosimili e sclerotiche, del consumo, molti sprofondano nel dramma sociale della solitudine, altrettanti impazziscono nell’esasperazione del “tutto mi è possibile” instillato dalla cultura dell’individualismo. Ne viene fuori un calderone di contrapposizioni interindividuali, di lotte per l’autoaffermazione che eliminano sempre più l’idea che esista un Altro, quando addirittura non arrivano ad eliminarlo anche fisicamente.
Ma proviamo ad analizzare qual è l’effetto di tutto questo su ciò che rimane della nostra vita sociale di cittadini dell’Occidente. E nel farlo non si può non partire dalla famiglia, l’aggregazione sociale che è stata alla base delle varie forme di società che si sono susseguite nel mondo occidentale. Oggi la famiglia, così come eravamo abituati a conoscerla almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, non esiste più o almeno è una presenza residuale nella realtà dei fatti. Oggi la famiglia è sempre più spesso quella cosiddetta “allargata”, che però non è più una famiglia, perché contraddice l’unicità della relazione genitoriale che ne contraddistingueva l’esistenza. Essa è infatti qualcosa che tende a liquefarsi e a estendersi, al di là delle possibilità fisiche di relazione tra i componenti. Ci sono famiglie “allargate” all’interno delle quali si ritrovano i figli di molteplici relazioni dei genitori originari e, se questo potrebbe anche essere una ricchezza dal punto di vista relazionale, obiettivamente si manifesta in genere più come un allentamento del rapporto e della condivisione. Detto ciò, non vuol dire però che nella famiglia tradizionale tutto invece prosegua perfettamente, in quanto il problema educativo, anche al suo interno, è oggi fortemente in crisi. E lo è sia per ragioni esterne che interne al nucleo stesso.
Le prime sono quelle che derivano dal martellamento quotidiano, tramite gli strumenti della comunicazione contemporanea, della civiltà del consumo e dell’effimero. E qui la fanno da padroni i social con quella capacità demenzialmente ipnotica di tenere i ragazzi incollati allo smartphone. E più sono stronzate quelle che i social propongono, facilmente comprensibili proprio perché demenziali, e più fanno breccia nei ragazzi rendendoli partecipi della cosiddetta community, sì, ci sono anch’io, sono come tutti gli altri. E, basta non restarne fuori, va bene qualsiasi cosa, anche la proposta voyeuristica della violenza. In queste condizioni è possibile all’interno del nucleo familiare una comunicazione proficua tra genitori e figli?
E qui si pone la questione del ruolo genitoriale oggi, che non può prescindere dalla qualità della relazione esistente all’interno della coppia. Perché se è estremamente difficile fare il genitore in una coppia separata e magari con nuove famiglie allargate, lo è anche quando la coppia convive sia obtorto collo sia pienamente convinta di farlo. Innanzitutto perché anch’essa subisce il bombardamento esterno del consumo, del diluvio di proposte alienanti che la rete le offre se non addirittura le impone. E già questo mette a dura prova la tenuta del rapporto. Quando poi si tratta della relazione con i figli, colonizzati mentalmente da quella stessa rete, trovare la chiave per restare/entrare in sintonia con loro diventa estremamente difficile. Essere accondiscendenti, giovanilistici, amici dei propri figli? Oppure autoritari, pretendere il rispetto delle regole familiari e anche dei ruoli? Nel primo caso si rischia di finire a chattare come loro – magari inizialmente per avere un terreno comune di confronto, poi catturati dalla stessa malia – e ritrovarsi in casa ognuno attaccato al proprio smartphone, al colmo della incomunicabilità familiare. Nel secondo caso si rischiano invece situazioni di tensione che, irrisolte e perpetrate, possono sfociare nella rottura definitiva del rapporto o addirittura nel dramma.
Per quel che riguarda invece oggi la qualità della relazione con l’Altro, non si può prescindere dall’analisi del processo di individualizzazione della società che le teorie del liberismo economico e politico hanno portato avanti in questi ultimi trenta/quarant’anni. La società del consumo avanzato che ne è derivata è quella composta da individui concentrati su se stessi, nell’ansia costante di raggiungere degli obiettivi assolutamente individuali, indifferenti agli effetti che possono avere sugli altri, in un tentativo di autopromozione che consenta loro di emergere dalla massa e di emulare i divi della società dello spettacolo. Che, come sosteneva Guy Debord nel suo famoso libro, non sono soltanto quelli dell’ambito tradizionale dello spettacolo, ma tutti coloro che, in una società che esalta l’individuo, devono e vogliono necessariamente apparire, dai politici ai capitani d’industria. È chiaro che in questo contesto il concetto di bene comune condiviso anche dal liberalismo classico passa in secondo piano, diventa un concetto magari rammentato istituzionalmente, ma non perseguito politicamente; ciò che conta è il trionfo dell’individuo in una variante contemporanea dell’uomo forte garantita sempre più dalle democrazie autoritarie. E le decisioni, anche quelle più importanti per il destino dei popoli e dell’umanità, vengono prese da gruppi ristretti, perché, secondo loro, la democrazia è il sistema migliore per lo sviluppo della civiltà dei consumi, ma va corretta autoritariamente perché il popolo non è in grado di capire ciò che è meglio anche per lui.
In questo clima di dissociazione nella relazione di massa, di messa in discussione di principi e di valori collettivi, quale può essere il destino del rapporto uomo/donna scandito oggi quasi quotidianamente dall’efferatezza della sopraffazione? Il maschio, reso liberista, ma non liberale dal processo di individualizzazione sopra indicato, pretende ancora di più rispetto al passato di possedere la donna, ma in modo diverso: non in base ai criteri del maschio classico, quello prodotto dalla società patriarcale, ma in base a quel desiderio infantile di possedere le cose che l’esaltazione precoce dell’individualità e la diseducazione familiare hanno endemizzato nel suo immaginario. E un bambino cresciuto che non ha un codice morale, ma risponde soltanto agli impulsi del “mio! mio!” della prima infanzia non può che commettere atti inconsulti, fino a giungere all’omicidio di ciò che ritiene un suo e soltanto un suo giocattolo.
Ma questa società, che è diventata una società dello spettacolo, quanto è stata influenzata dal mondo dello spettacolo vero e proprio contemporaneo? Credo che non si possa ragionare sui comportamenti di massa e degli individui prescindendo dal ruolo che essa ha esercitato soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Già i grandi dittatori della prima metà del Novecento ne avevano compreso le potenzialità di condizionamento dell’opinione pubblica, ma è stata la cinematografia americana, dato anche l’esito della guerra, a permeare l’immaginario degli europei e a stimolare la crescita delle cinematografie dei vari paesi. E il cinema, quando è arrivato anche nei piccoli centri rurali, ha segnato senza dubbio una delle più grandi rivoluzioni culturali che siano mai avvenute. C’è stato poi il boom della televisione e il vedere è diventato presto più importante dell’ascoltare, con la radio relegata sempre più al ruolo di trasmissione per nostalgici e iniziati. Quando poi la tv commerciale ha cominciato a dilagare, il piacere e la novità dell’immagine si sono trasformati sempre più in una sorta di dipendenza, di attrazione fatale al di là della qualità dell’offerta. Ecco allora il proliferare di trasmissioni di coinvolgimento del pubblico a casa e di “signor nessuno” in studio, con uno scadimento dei livelli della proposta, sempre più populista e commerciale. E contemporaneamente la messa in onda televisiva di film provenienti dal mercato americano di serie A, B e anche C, girati in quattro e quattr’otto per la delizia dei gonzi, che a un certo punto hanno cominciato, sulla scorta anche di una letteratura che lo stava scoprendo, a proporre l’esaltazione dell’eroe negativo, in quanto suscitatore di maggiori emozioni e stimoli rispetto alla figura ormai sbiadita dell’eroe positivo, quello per intenderci senza macchia e senza paura. Film che indugiavano, per far salire l’adrenalina dello spettatore, su situazioni scabrose, fossero esse di violenza o di sesso, e che s’imprimevano inevitabilmente nel suo immaginario. E tutto questo, con il calare delle regole della gestione familiare, è diventato pian piano patrimonio di tutti, anche dei minori, liberi e individualizzati, che sono cresciuti nel mito di queste performance. Si trattava di finzioni, si tratta di finzioni qualcuno continua a dire, ma io sono convinto che derivi soprattutto da questo e dal suo trasferimento più sofisticato e partecipato nell’uso compulsivo dei social la tragedia umana che stiamo vivendo.
Che fare, dunque, per arginare questa deriva inquietante che produce relazioni sempre più tossiche all’interno e all’esterno delle famiglie? Riscoprire innanzitutto forme dello stare insieme reale, in cui ci si possa confrontare de visu nella pienezza della nostra umanità. Rimettere al centro l’idea del bene comune, l’unica che può garantire all’individuo il suo riconoscimento reale e la sua sicurezza. Rinnovare i termini dell’educazione familiare e scolastica, affinché insegnino per davvero che non esiste vera libertà se non si accettano regole relazionali. Riprendere a fare politica come servizio e non come carriera personale e desiderio di apparire e far sì che essa ritorni ad essere l’ambito in cui si decide la gestione della società e non un’ancella agli ordini dell’economia.