Colposamente, ponendo in essere una condotta certamente incauta

“Ciò hanno fatto colposamente, ponendo in essere una condotta certamente incauta, ma non con la piena consapevolezza della mancanza di consenso della ragazza o della sua preponderante alterazione fisica”

Avrebbero agito “condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile forse derivante da un deficit educativo e comunque frutto di una concezione assai distorta del sesso”

“Non capirono il no della ragazza”

“Non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso), abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente”

“Appare verosimile che lo sfioramento dei glutei sia stato causato da una manovra maldestra dell’imputato che, in ragione della dinamica dell’azione, posta in essere mentre i soggetti erano in movimento e in dislivello l’uno dall’altra, potrebbe avere accidentalmente e fortuitamente attivato un movimento ulteriore e non confacente all’intento iniziale”

“La ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di “Nina Vikingo”, con allusione a una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare”

“In definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio “lei” a organizzare la nottata “goliardica”, trovando una scusa con la madre”.

“È comune negli uomini dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende ad esercitare quando un marito (che nel caso di specie appare particolarmente amante della materia) tenta un approccio sessuale”

“L’idea di perdere i contatti stabili con colei che egli, per sua stessa ammissione e secondo l’amica testimone, amava perdutamente, da cui sostanzialmente dipendeva poiché gli aveva permesso di vincere la solitudine in cui si consumava in precedenza e di vivere in modo finalmente diverso e gratificante, si è rivelata insopportabile… si è reso conto che la giovane si era in qualche misura servita di lui per meglio cercare i propri interessi personali e professionali, e ciò ha scatenato l’azione omicida… la consapevolezza di aver perso la donna amata, accompagnata dal senso di crescente frustrazione per essere stato da lei usato e messo da parte” è stato il motivo che ha scatenato la furia omicida. “Non ci fu premeditazione perché si trattò di un delitto d’impeto” e non ci fu crudeltà perché “non infierì sul corpo della donna” oltre a quanto fosse “funzionale alla sua uccisione”.

“I giovani non sanno che ciò che vedono nei film è pura finzione. Che agli attori maschi vengono fatte punture, che, per garantire loro quella durezza che può durare ore, gli vengono iniettate sostanze micidiali. Che le donne, le attrici, per non sentire dolore vengono anestetizzate. Voglio dire ai ragazzi che quello che viene riprodotto nei film non rappresenta la realtà (Rocco dixit)”.

La serie di citazioni riportate in apertura – relative a dispositivi di sentenze su diversi casi di violenza sessuale sulle donne e chiuse con una “perla” di un famoso sessuologo(!) italiano –  mi spingono a cercare di riflettere su che cosa sta succedendo nel rapporto uomo-donna nel nostro paese e perché sta succedendo. E lo voglio fare a tre livelli, partendo dal concetto di tutela della persona sancito dall’articolo 3 della Costituzione per poi passare all’analisi della condizione specifica della donna e dell’uomo nell’Italia contemporanea.

1)“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Riporto l’articolo 3 integralmente, perché in esso ogni parola è carica di significato e l’insieme del testo indica in modo sintetico, ma puntuale e mirabile, la tutela che la Repubblica garantisce a ciascuno di noi come cittadino e come persona. E lo fa fisicamente, intellettualmente e socialmente, salvaguardando il nostro diritto individuale a vivere e a essere come meglio riteniamo, anche per quel che riguarda le nostre scelte sessuali, ovviamente nei termini delle leggi vigenti (la parola “cittadino” è portatrice di questa condizione).

Se dunque nel nostro paese continua ad esserci discriminazione di genere non è dovuto affatto alla carenza legislativa, ma ai limiti storico-culturali di natura maschilista ancora forti in noi italiani. Limiti che non discriminano soltanto nei confronti dell’altro genere, ma anche all’interno dello stesso genere maschile in quanto l’appartenenza ad esso viene ancora pensata in termini di virilità storica consolidata e l’uomo forte è ancora un modello per la stragrande maggioranza dei maschi, spesso anche per coloro che, pur non avendone le caratteristiche fisiche e caratteriali, vorrebbero inconsciamente comportarsi come quegli altri.

Purtroppo, come se non bastasse la tara di questo atavismo, i rigurgiti nazionalistici di questi ultimi anni volti ad esaltare l’individuo e la forza a discapito del diritto nelle sue forme nazionali e internazionali, ci ripropongono un’immagine del maschio che se vuole essere tale non deve mediare e cercare una  conciliazione con gli altri, ma dimostrare  ovunque e comunque di “avere le palle”. Espressione crudamente sessista, ma spesso utilizzata anche da donne che forse, consciamente o inconsciamente, sono nostalgiche dell’egemonia maschile a tal punto che ne assumono anche i comportamenti

Ecco, dunque, che la violenza trova una sua giustificazione e, nonostante resista ancora il freno delle leggi, si fa nuovamente strada come risoluzione dei conflitti, come extrema ratio di fronte all’impossibilità di altre pacifiche soluzioni, senza che magari queste siano state perseguite con la dovuta convinzione. Ma giustificare la violenza e considerarla la naturale e inevitabile espressione dell’aggressività umana e del suo desiderio di competizione è in aperto conflitto con i contenuti egualitari e non violenti dell’articolo 3 della Costituzione che rischiano di restare un bell’enunciato sulla carta se non vengono interiorizzati e praticati dalla maggior parte dei cittadini.

Ma allora che cosa possiamo fare per contenere questo istinto che ci caratterizza e che pare essere più forte di ogni nostro buon proposito etico e legislativo? Bisogna innanzitutto partire da una considerazione oggettiva: abbiamo alle spalle una storia umana intrisa di violenza, di guerre, deportazioni e genocidi, contro le quali nel corso dei secoli si sono levate le voci di pochi coraggiosi, per lo più isolati ed emarginati e spesso anche fisicamente eliminati dal potere contingente; e le guerre hanno deciso il destino dei popoli, e le dominazioni che ne sono conseguite raramente sono state illuminate, anzi, per lo più hanno ridotto intere popolazioni in schiavitù o le hanno sottoposte a regimi repressivi e predatori; e se ci sono state rivoluzioni e cambiamenti hanno semplicemente sostituito con la forza a quei regimi altri sistemi di dominazione più sofisticati, comprese le forme di governo democratiche nate negli ultimi due secoli che hanno espresso e codificato principi di libertà ed uguaglianza spesso contraddicendoli poi nei fatti.

Non ci sono dunque speranze di costruire un mondo migliore secondo lo spirito vero e non violento dell’articolo 3 della nostra Costituzione? Se non cambiamo il nostro modello educativo, sia familiare che istituzionale, probabilmente finiremo per autodistruggerci, per far prevalere nei modi sofisticati della contemporaneità quell’aggressività che le società civili si erano ripromesse di contenere. E cambiare modello educativo vuol dire educare fin dalla prima infanzia alla non violenza in modo che le interrelazioni dei bambini prima e dei ragazzi poi si fondino sulla capacità di riconoscere nell’Altro un interlocutore solidale e non un nemico da cui difendersi o di cui diffidare. Dobbiamo insegnare ai nostri figli e nipoti – tiro in ballo anche i nonni – l’approccio disarmato alla relazione, scevro di pregiudizi di qualsiasi natura, condizione indispensabile affinché avvengano pacificamente il contatto e la mediazione con gli altri. Ovvio che per fare ciò bisogna dedicare un tempo di vita maggiore al rapporto genitori/figli e far sì che questo rapporto sia poi effettivo e non una compresenza isolazionistica in balia degli strumenti di comunicazione di massa. Dobbiamo parlare, ascoltare, giocare e ragionare insieme a loro, costruendo innanzitutto un’armonica relazione intrafamiliare che è la base indispensabile per una corretta e pacifica relazione anche con i coetanei e con tutto il mondo esterno.

La stessa cosa deve fare la scuola, in buona e costante interazione con le famiglie, e per farlo necessita di una maggiore formazione degli operatori sotto l’aspetto relazionale, anche se già oggi la scuola è spesso un’isola felice rispetto alla realtà circostante, l’unica in cui i valori della convivenza civile vengono insegnati e praticati. Purtroppo sempre più la richiesta che le viene fatta da fuori – talora caldeggiata anche da alcuni suoi addetti ai lavori – è invece quella di adeguarla ai ritmi e agli ideali della cosiddetta società produttiva (fatta in genere di effimero che non  produce proprio un bel niente) al cui interno le forme di discriminazione e di violenza sono all’ordine del giorno, magari stigmatizzate, ma in fondo accettate (la vita è questa…).

Ma per sconfiggere il morbo della violenza, che affiora in modo sempre più dirompente nelle nostre società contemporanee, bisogna fare ancora di più sul piano educativo e civile: anziché continuare ad enunciare principi su carta sapendo che verranno disattesi in nome della libertà di fare ciò che ci pare e della logica esasperata dell’affermazione individuale, bisogna prevedere un’educazione permanente alla non violenza per tutti i cittadini, una continuazione del lavoro fatto dai genitori e dagli insegnanti nella scuola. E promulgare leggi che premino la capacità di convivenza e puniscano invece ogni forma di violenza, fisica o psicologica, non con sentenze eccezionali, ma di norma. Ogni atto violento deve essere scontato con pene certe e inequivocabili, basate essenzialmente su percorsi veri di recupero, non dei pro forma, senza attenuazioni o scappatoie degne dell’azzeccagarbugli come succede purtroppo oggi in molti casi.

2) La donna è uscita – grazie alle carte costituzionali e alle dichiarazioni delle principali istituzioni mondiali – dal ghetto in cui l’aveva precipitata la Storia, fatta dagli uomini. Nei fatti, però, nonostante le conquiste e le effettive condivisioni con l’altro sesso, vive a livello pratico una situazione di instabilità del diritto che la riguarda, come confermano le parole delle sentenze riportate in apertura. In pratica, spesso e volentieri le norme e gli atti anche chiari e specifici che la tutelano – e in un mondo egualitario ed evoluto non dovrebbe essercene bisogno – sono stati pensati e promossi da uomini che, nonostante l’apparente onestà dei loro propositi, si portano dietro sottotraccia una sorta di costrizione psicofisica inconscia a quelle scelte e decisioni che sembrano più una concessione obtorto collo che un’effettiva convinzione. Come se lo facciano per prevenire le richieste delle donne e dimostrare loro che sono maschi emancipati e che quindi il problema della discriminazione non esiste oppure riguarda quella parte di maschi ignoranti che ancora c’è nel nostro paese. Ma se questi sono facilmente identificabili per cultura e pratica di vita e quindi potenzialmente controllabili, loro invece fanno parte di un torbido sommerso che, coperto da un’aura di rispettabilità e di pensiero emancipato, si manifesta poi nei modi più subdoli della violenza di genere, quello delle feste private all’insegna del burlesque o della prostituzione di alto bordo, quello dei party per pochi eletti dove scorre alcol e droga, soprattutto l’ultima arrivata, quella cosiddetta da stupro. “Vizi privati, pubbliche virtù”, si potrebbe dire rievocando un film di Miklós Jancsó del 1976.

Le donne, dunque, nel loro percorso di emancipazione hanno goduto di elargizioni da parte dei colleghi maschi che hanno mirato più a indirizzarlo che a favorirlo, tessendo una ragnatela glamour attorno alle loro legittime aspirazioni, dalle quote rosa al politically correct. E anziché aprire spazi effettivi a chiunque – donna, uomo o quant’altro sia – essi hanno cooptato le più adeguate (ai loro propositi di maschi) per ricoprire cariche prestigiose indipendentemente dalle loro competenze, impedendo d’altro canto ad altre, che le competenze magari le hanno al di là del sesso di appartenenza, di raggiungere gli stessi livelli. E allo stesso modo hanno codificato un sistema di riferimento verbale al mondo femminile scevro di parole storiche declinate al maschile sfiorando in alcuni casi addirittura il ridicolo della comunicazione. Usare sindaca, ministra, avvocata, direttrice, ingegnera anziché i tradizionali omologhi maschili non incide assolutamente sulla dignità della donna. Sono termini che non hanno bisogno di norme o di decreti per essere utilizzati, sarà la maggiore presenza di donne nei luoghi che contano per la loro competenza a renderli sostanza e prima o poi anche forma. Per non dire poi di quella che dovrebbe essere un’apertura politically correct a trecentosessanta gradi a tutti i generi, quell’uso dell’asterisco finale al posto del genere specifico per non irritare chi non ci si riconosce.

E intanto in Italia i femminicidi quest’anno sono già 88, come se il paese reale non avesse niente a che fare con tutte queste baruffe di carta che sembrano riguardare solo i piani alti della società. Nei territori le donne vengono uccise, e spesso addirittura macellate, per l’atavica pretesa maschile del possesso che va da quello tradizionale del marito/amante padre padrone a quello più cinico e consumista del maschio che considera la donna un giocattolo da rompere quando non gli serve più.

E in tutto questo l’istituzione è spesso assente o non mette adeguatamente a disposizione gli strumenti necessari per tutelare la vittima di violenze (ad esempio il braccialetto elettronico biunivoco).

Ma qui si torna all’educazione alla non violenza che tutti noi dovremmo ricevere sistematicamente nella scuola e nella società. E con essa alla relazione tra i generi all’insegna del rispetto della specificità e della persona. Educazione che però non può continuare a lottare contro un modello consumistico della relazione che usa il corpo, in particolare della donna, per messaggi pubblicitari ambiguamente sessisti, che esalta ancora il macho come affascinante eroe negativo e che riduce la relazione uomo/donna a una performance sessuale spesso violenta, perché solo così è stimolante, o addirittura al sesso fisicamente e artisticamente disgustoso proprio della cinematografia pornografica. Siamo sicuri che tutto questo, compresa la facilità dell’uso della rete web, non influisca sull’istinto bestiale del branco nell’individuare una preda su cui sfogare la propria malintesa mascolinità? Eppure c’è qualcuno che ha il coraggio di dire che, anzi, la rappresentazione cinematografica del  male ha un effetto catartico.

Ecco, se c’è una riflessione che le donne forse devono fare, è su come ancora molte di loro si lascino ingannare dall’immaginario malato di un maschio sempre più in crisi che, dal momento che sta perdendo storicamente il controllo della relazione, reagisce alla sconfitta cancellando violentemente tutti gli attori della sua vicenda, la moglie o compagna, i figli e anche altri congiunti.

3) “In amore e in guerra tutto è lecito”. Questo terribile proverbio, conosciuto in tutto il mondo, frutto di protervia maschile, ma che affascina anche molte donne, è estremamente ambiguo in quel “tutto” che accomuna l’amore alla guerra, perché la guerra è la massima espressione della violenza umana. Infatti “tutto” vuol dire ammettere la violenza anche in amore, così com’è avvenuto nei casi che ho riportato. Mi si obietterà che lì si tratta di stupri, non di amore, ma quante volte anche all’interno di una relazione normale tra uomo e donna è difficile capire se il rapporto travalica o meno i limiti della violenza fisica o psicologica? Per sgombrare il campo da queste ombre, io preferirei riportare la parola amore alla sua origine etimologica, a quel kama sanscrito che significava desiderio, passione, attrazione viscerale. E se tutto questo si manifesta con un’intensità reciproca di gesti passionali, non propriamente teneri, ma condivisi, questa non è violenza, ma una sana manifestazione di godimento.

Ecco, sta qui la differenza nei comportamenti: un conto è il consenso, che può essere estorto, e un altro la condivisione, che non può esserci senza una libera volontà del soggetto. Ed è questo che desidera un maschio che possa definirsi tale nel più nobile dei significati: la condivisione passionale. Che non è fare sesso con qualsiasi donna e comunque, anche contro la sua volontà, partendo dal presupposto aberrante che, pure se costretta, in qualche modo lei gode. Condivisione passionale che oltre che da un’attrazione reciproca deriva da un’intimità raggiunta nel tempo o anche passeggera, ma sempre desiderata da entrambi. Perché ogni relazione tra uomo e donna, fugace o continuativa che sia, deve basarsi innanzitutto sul rispetto reciproco come persona, su una scelta concordata. Che non vuol dire burocraticizzare la relazione – non ci sono leggi che possano imbrigliarla – ma essere limpidi e  franchi nei propri comportamenti.

Alla luce di tutto questo, il maschio che si esibisce con fatti e con parole in modo protervo e violento appartiene a una distorsione storica della comune umanità tra uomo e donna, che tiene insieme il senso del possesso proprio del passato e l’idea del consumo generalizzato, di cose e di persone, che caratterizza il presente. La sua arroganza rancorosa e distruttiva è fondamentalmente una ribellione alla perdita dell’ultimo ambito in cui pensava di poter avere ancora potere, quello del rapporto con la donna. Perché se era crollato ormai tutto intorno a lui – il suo ruolo di cittadino reso sempre più effimero e ininfluente dalla crisi della democrazia contemporanea – pensava almeno di contare come maschio nella relazione suprematista con la donna, senza tanti cavilli e discussioni. Ma il fatto che lei abbia preso coscienza del suo diritto come donna e come persona di essere libera di scegliere di amarlo o  di continuare ad amarlo o meno ha aperto una voragine sotto i suoi piedi e lui, annaspando disperatamente, ha cercato e cerca di trascinarla con sé nell’abisso come capro espiatorio del suo malcontento.

Riusciremo a invertire questa tendenza al cupio dissolvi che si manifesta in molti ambiti della nostra società e in particolare nella relazione uomo-donna? Finché buona parte dei maschi non ritroverà o non si costruirà ex novo un’identità innanzitutto come persona, continuerà a comportarsi in modo violento nei confronti della donna e di tutto l’universo di liberazione che si è aperto davanti a lei, magari sbandierando, come faceva già qualcuno, la triade autoritaria e oscurantista dio, patria e famiglia, pur essendo miscredente, voltagabbana e adultero seriale.

 

 

 

 

 

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