Com’è possibile non lamentarsi della mediocrità politico-culturale del presente visto che la maggior parte dei politici oggi è ignorante e la sua ignoranza è anche la sua fortuna politica? Ma per lamentarci è anche necessario capire perché questa gente ha comunque fortuna e qual è lo scenario politico, economico e sociale che ne ha consentito l’ascesa. Non è possibile liquidare la questione così su due piedi, ma va analizzata per capirne le ragioni e le radici.
Innanzitutto bisogna premettere che il mondo in cui viviamo (mi riferisco qui al mondo cosiddetto occidentale e ai suoi satelliti) è il frutto dell’ascesa della borghesia mercantile a partire dal diciottesimo secolo, quando travolse in Europa e in America il concetto di privilegio nell’esercizio del potere. Allora la borghesia fu straordinariamente rivoluzionaria e sancì a livello planetario l’uguaglianza di tutti gli uomini. Ma non solo: emancipò anche il concetto di lavoro, demonizzato dagli aristocratici, e ne fece il fulcro del mondo. E il lavoro della nascente industria originò una nuova classe sociale fino ad allora sconosciuta o comunque marginale, il proletariato, che in quell’opera borghese di costruzione della Modernità mise a disposizione la sua forza lavoro, strappata alla campagna da quella stessa borghesia che se ne stava impadronendo per renderla fruttuosa. Ciò che avvenne agli inizi dell’industrialismo, lo sfruttamento feroce della manodopera in termini di orario di lavoro e di fatica e pericolosità nello svolgerlo, è materia di studio in tutti gli ordini di scuola.
Fu questa borghesia imprenditoriale che espresse un ceto politico colto e dinamico in grado di trasformare gli stati americani ed europei nelle moderne democrazie liberali all’interno delle quali, per la prima volta nella Storia, tutti gli uomini avevano gli stessi diritti e doveri ed erano uguali di fronte alle legge. Fu essa a dar vita alla dialettica politica tra forze più conservatrici e altre più liberali e furono pensatori da essa scaturiti a porre la questione sociale nei termini della lotta di classe. Il proletariato da solo non sarebbe mai riuscito ad emanciparsi senza la spinta e la cultura di questi borghesi rivoluzionari. Furono Locke e Montesquieu a sviluppare un’idea del diritto di libertà basata sull’individuo e di contro Rosseau a ricondurre questa stessa idea a principi collettivi universali. E così Adam Smith a basare la ricchezza delle nazioni sulla libera concorrenza degli individui e i rivoluzionari francesi a sostenere che il benessere collettivo non può essere garantito da questa libera concorrenza per cui il governo deve limitarla e indirizzarla secondo l’interesse della collettività. Ed è su questa dialettica che si svilupparono le democrazie liberali dell’Ottocento e del Novecento fino alla grande crisi della prima guerra mondiale che le vide vincitrici, con l’appoggio della democrazia statunitense, sui cosiddetti imperi centrali, Austria e Germania, residuo dell’autocratismo prerivoluzionario. Contemporaneamente, nei paesi a maggior sviluppo industriale, si andavano radicando sempre più nelle masse lavoratrici idee socialiste di rivoluzione sociale e di conquista del potere con la forza, in particolare quelle che facevano riferimento a Carlo Marx, che trovarono attuazione nella Russia zarista, il meno industrializzato dei grandi paesi europei, con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 nel contesto del primo conflitto mondiale.
Ed è proprio con la prima guerra mondiale che si esaurisce la spinta innovatrice del liberalismo e in alcuni paesi, in particolare in Italia e in Germania, ma anche in Spagna, in Ungheria, in Polonia, in Portogallo, in Austria, in Bulgaria, in Grecia e in Romania, salgono al potere dei regimi autoritari di destra, cioè regimi che esaltano la figura del capo carismatico, costruendone un’immagine fatalistica, e affidano a milizie paramilitari la garanzia del suo potere assoluto. Ed è questa battuta d’arresto delle democrazie liberali che fa dire al grande scrittore ungherese Sándor Márai che con la prima guerra mondiale si dissolve il grande sogno dell’umanesimo liberale che aveva saputo “traghettare il mondo dalle sponde del feudalesimo a quelle del parlamentarismo costituzionale, del liberalismo e del sistema di produzione capitalista”. Sì, ci sono ancora degli esempi virtuosi di questa missione borghese, ma il loro destino personale è emblematico del cambiamento che sta avvenendo.
Walter Rathenau, politico e imprenditore tedesco di origine ebraica, uomo colto e oratore brillante, liberale moderato, nel 1921 venne nominato Ministro della Ricostruzione della cosiddetta Repubblica di Weimar e l’anno dopo Ministro degli Esteri. Aristocratico, sostenne le ragioni dei disoccupati e degli operai per i quali prospettava una maggiore partecipazione nella gestione delle imprese. Nello stesso tempo riteneva che la Germania dovesse pagare i debiti di guerra stabiliti dal Trattato di Versailles, magari ricontrattandoli al ribasso, per una questione di pari dignità con le nazioni vincitrici. Era dunque l’uomo destinato a diventare il presidente della giovane repubblica, l’unico che sarebbe stato in grado di salvarla dalla deriva populista. Ma il 24 giugno 1922 venne assassinato da due esponenti dell’estrema destra militarista che ne contestava la politica estera, ma non solo: aveva ben chiaro che eliminato Rathenau nessun altro sarebbe stato in grado di prendere il suo posto con lo stesso prestigio e le stesse capacità e in questo modo si sarebbe spianata la strada alla reazione. Iniziò così la lenta agonia della neonata repubblica, che terminò nel 1933 con l’ascesa al potere di Adolf Hitler.
In Italia nelle elezioni del 6 aprile 1924 la Lista Nazionale (detta volgarmente “Listone”) – di cui facevano parte PNF, Destra, Nazionalisti, Liberal-Nazionali, Nazional-Sindacalisti, Nazional-Popolari – risultò la più votata a livello nazionale per cui, in base alla nuova legge elettorale (legge 18 novembre 1923 n. 2444, nota come “legge Acerbo”), le furono assegnati i 2/3 dei seggi in tutte le circoscrizioni, mentre i rimanenti furono assegnati alle altre liste in proporzione ai voti ottenuti e secondo l’ordine di preferenza personale. Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario, nella seduta della Camera dei deputati del 30 maggio successivo contestò il risultato delle elezioni sostenendo che erano state caratterizzate da ripetute violenze da parte dei miliziani fascisti che avevano condizionato il voto impedendo in alcune circoscrizioni la presentazione delle liste o la propaganda elettorale mediante comizi. Ma ciò che i vertici del fascismo temevano soprattutto erano le indagini che Matteotti stava facendo su presunte tangenti percepite da esponenti del regime per favorire l’affare Sinclair oil per lo sfruttamento petrolifero del sottosuolo italiano. Fatto sta che il 10 giugno 1924 Matteotti fu rapito da una squadraccia fascista e barbaramente ucciso. Moriva così l’unico deputato dell’opposizione che aveva la competenza e il carisma politico per opporsi a Mussolini, opposizione che restò dunque acefala dopo questo omicidio e naufragò miseramente nel tentativo del cosiddetto Aventino.
Terminata la seconda guerra mondiale, sconfitti il fascismo e il nazismo grazie all’intervento alleato e dell’Unione Sovietica, riprende a spirare – sulla spinta delle lotte di Liberazione partigiane delle Resistenze dei vari paesi – il vento della democrazia. Lo esigono le popolazioni, stanche di autocratismo, anche se fino a poco tempo prima sostenitrici acritiche dei regimi dittatoriali, lo esige il boom industriale che disdegna i nazionalismi, perché rappresentano l’ostacolo principale allo sviluppo del commercio mondiale. Si fanno programmi per la ripresa delle economie europee, il piano Marshall, ad esempio, e gli USA diventano il punto di riferimento economico e politico per tutto il mondo occidentale. E dopo la prima condivisione della vittoria, in seguito alla frattura tra USA e URSS l’Europa viene divisa in due blocchi contrapposti che corrispondono alle sfere di influenza delle due potenze. Inizia il periodo della cosiddetta guerra fredda, condotta soprattutto dalle agenzie investigative segrete dei due paesi con alcuni momenti di tensione critica come la guerra di Corea, i missili a Cuba e la guerra del Vietnam. Guerra fredda che se non sfocia in un nuovo conflitto mondiale è per merito degli epigoni di quel ceto politico virtuoso che la borghesia riesce ancora ad esprimere.
Politici come John e Robert Kennedy negli USA, Charles De Gaulle e Francois Mitterand in Francia, Konrad Adenauer, Willy Brandt ed Helmut Kohl in Germania, Clement Attle, Winston Churchill e Harold Wilson in Gran Bretagna, Olof Palme in Svezia, Alcide De Gasperi, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer in Italia esprimono il meglio della cultura politica e della capacità di far politica di quegli anni secondo i principi delle democrazie liberali. E alcuni di essi, proprio perché non recedono davanti alle intimidazioni di chi ritiene che siano troppo democratici, pagano con la vita la loro idealità, come John e Robert Kennedy, Olof Palme e Aldo Moro, oppure vengono “bruciati” come Willy Brandt per l’affare della spia della Stasi (la polizia segreta della DDR) Guillaume nel suo entourage.
Ma la stessa cosa vale per l’economia. Se si pensa all’Italia, sono industriali come Adriano Olivetti, Michele Ferrero, Luisa Spagnoli e Giorgio Campagnolo che rappresentano la tipologia dell’imprenditore illuminato, preoccupato ovviamente del successo economico della sua azienda, ma anche consapevole della responsabilità sociale della stessa, sintetizzato nelle parole di due di essi che ci dicono qual è il loro modo di intendere l’impresa. Adriano Olivetti: “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo…”. Michele Ferrero: “La mia unica preoccupazione è che l’azienda sia sempre più solida e forte per garantire a tutti coloro che ci lavorano un posto sicuro”. È questo il capitalismo borghese erede dell’umanesimo liberale che Márai riteneva fosse stato spazzato via dal primo conflitto mondiale. Ma ne è in effetti l’estrema propaggine, oltre la quale inizia il buio della mera speculazione, propria di una concezione liberistica estrema predatoria e dissolvente
Ecco che l’impresa diventa irresponsabile, preoccupata soltanto del suo profitto e dell’eventuale liquidazione dell’investimento qualora esso non renda cospicuamente o rischi addirittura di fallire. Si moltiplicano le chiusure, spesso repentine, senza preavviso o con comunicazioni dell’ultimo momento tramite messaggio digitale. L’azienda si smaterializza, diserta il confronto, cede la proprietà a uno dei tanti fondi di investimento anonimi che sono specialisti nel gestire e portare a conclusione le situazioni di crisi. I lavoratori, i sindacati, gli stessi governi si trovano a trattare con dei tramiti, professionisti incaricati, che hanno il semplice compito di portare avanti in modo estenuante la trattativa per succhiarne tutti i possibili vantaggi. Ma l’azienda poi non riparte e si scopre che magari è stata riaperta, con tutto il know how precedente, in un paese più arretrato dal punto di vista sociale e civile.
Ma dov’è la borghesia virtuosa e intraprendente, quella che ritiene di essere ancora il motore della società contemporanea, la depositaria di un’idea di libertà politico-sociale che solo essa è in grado di garantire? Forse nei paradisi fiscali di certe isole remote o chiusa nelle megaville da centinaia di milioni nelle zone più esclusive del nostro paese tranne qualche rara apparizione tipo alla prima della Scala nei posti da tremila euro l’uno. Perché la borghesia italiana non ha più niente da esprimere, ma è diventata una borghesia populista che partecipa più al gossip di certa stampa o trasmissione televisiva che al dibattito politico costruttivo e necessario in una situazione di crisi come l’attuale. È una classe estenuata, che non ha più voglia né capacità di mettersi in gioco e vive sulla rendita finanziaria in cui ha impegnato tutti i suoi capitali.
D’altro canto, il suo tradizionale antagonista, il popolo lavoratore, è disperso, privo dei tradizionali punti di riferimento politici e sindacali, sempre più impegnato, nonostante le crescenti difficoltà economiche, a cercare di assomigliare a quella borghesia rampante che ancora persiste nel suo immaginario. E allora lotta spasmodicamente per condividerne gli status symbol, dall’automobile superaccessoriata modello astronave al vestiario similricercato, dalle vacanze nei luoghi esotici ai ristoranti degli chef più famosi, e magari non paga la pigione e il condominio nel palazzo mediocre in cui abita e accetta condizioni di lavoro che vigevano prima delle riforme degli anni Settanta. C’è poi chi non ce l’ha proprio il lavoro e magari non lo cerca nemmeno e vive sulle spalle di genitori e nonni che avevano risparmiato per la loro vecchiaia. Ma tutti si conformano al modello unificante, quello del populismo borghese, cioè di apparire come lor signori nonostante le difficoltà economiche. E anziché riflettere criticamente su queste e comprenderne le ragioni, maturano idee politiche reazionarie da homo homini lupus e sono spietati con i più poveri di loro e soprattutto con gli immigrati. Immigrati che sono per lo più carne da macello dello sfruttamento e, nonostante qualcuno strepiti che devono integrarsi, serve a molti che non abbiano tutele e garanzie come i lavoratori italiani per poterli utilizzare a basso costo e a loro piacimento. Che poi alcuni di loro integrati e inseriti, magari con la cittadinanza acquisita, si comportino come gli autoctoni nei confronti di altri immigrati è il meccanismo divorante del populismo borghese.
La borghesia populista e il populismo borghese sono il frutto di quella società liquida, come l’aveva definita Bauman, in cui sono venute meno le appartenenze sia umane sia di classe e ognuno è individuo non nella sua originalità, ma nella sua solitudine esistenziale. Ed è questa solitudine a incupirne l’esistenza, a renderlo compulsivo nei gesti per evaderla che per lo più si trasformano in aggressività verso l’altro, soprattutto se ritenuto più debole. Aggressività che diventa ideologia politica, indistinta, ma determinata a trovare comunque un colpevole, identificato soprattutto in coloro che ancora difendono la legge e il diritto e si riconoscono nella solidarietà umana. Ecco, è soprattutto questa insofferenza nei confronti della legge che ci dà la misura del degrado: la borghesia è stata la precorritrice della legge contro l’arbitrio signorile, è lei che ha propugnato e sancito il diritto degli individui tutti, e oggi invece se ne lamenta e vorrebbe avere quell’arbitrio contro cui aveva così a lungo combattuto; il popolo ha ottenuto garanzie e difese contro lo sfruttamento grazie alle leggi man mano promulgate nelle democrazie contemporanee e ora anch’esso ne è insofferente, contro il suo stesso interesse, travolto dall’ebbrezza del sogno ancora ricorrente, anche se falso, di qualche uomo del destino che gli consenta di andare oltre la legge e di scaricare tutta la sua rabbia contro qualche capro espiatorio.
Siamo dunque sul filo del rasoio: se non avremo la forza di capovolgere questa tendenza e di ridare forza e dignità alle ragioni fondamentali della convivenza, al dialogo necessario nella diversità, al sapere e a un’etica condivisa come bussole indispensabili nel governo dei territori, rischieremo di precipitare in quegli scenari apocalittici che alcuni libri e film hollywoodiani ci hanno da tempo anticipato, da cui sarà difficile tornare indietro per ricostruire condizioni accettabili di civiltà e di sopravvivenza.