A léngua da Memória

Tip. Impressioni Grafiche, Acqui Terme 2018

Indice

Prefazione

La Memoria è, nelle rivendicazioni dei popoli, il richiamo a un’identità pregressa che ne avrebbe caratterizzato nel tempo i costumi, le tradizioni e l’immaginario, tutto quello che potremmo definire la loro cultura popolare. E spesso la Memoria è in aperto conflitto con la Storia in quanto questa ha condizionato il destino di molti popoli basandosi esclusivamente sul criterio della forza e disattendendo in toto la loro Memoria.

Proprio in seguito a questa discrasia la storia universale dei trattati di pace pullula di prevaricazioni e dolorose ferite spesso mai più rimarginate: esempi eclatanti sono stati l’imposizione della pax romana e le crociate, le guerre di religione e lo sterminio degli indiani d’America, la spartizione dell’Africa e il Congresso di Vienna, ultimo tentativo di restaurazione aristocratica che ebbe così in spregio il destino dei popoli da far dire al suo mentore, il cancelliere Metternich: “L’Italia è solo un’espressione geografica”.

Ma è soprattutto dopo la terribile tragedia delle due guerre mondiali del ’900 e il genocidio sistematico perpetrato nei campi di sterminio nazisti che l’esigenza dei popoli di veder riconosciuto il loro diritto alla Memoria è diventata così impellente da essere assunta nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea dell’Onu il 10 dicembre 1948, pur con tutti i limiti di un mondo allora politicamente bipolare in seguito agli accordi di Yalta. Purtroppo, anche dopo il crollo dell’Urss, nel mondo economicamente bipolare dell’oggi (paesi ricchi – paesi poveri) ci sono popoli che – sempre in base a una gerarchia consolidata, fondata sulla forza, politica o economica che sia – possono pretendere di più e altri di meno o addirittura altri ancora a cui non è stato riconosciuto il diritto di avere uno stato proprio nonostante la conclamata diversità culturale rispetto alla maggioranza della popolazione dello stato o degli stati in cui vivono.

In questi ultimi anni lo slogan “Non c’è futuro senza Memoria” ha assunto un valore universale, ma più che riferirsi alle storie nazionali è diventato una sorta di monito per esorcizzare possibili rigurgiti di errori del passato commessi dalla comunità internazionale, si tratti di sterminio di popoli o di utilizzo di armi di distruzione di massa. Un invito al dialogo interculturale e all’accettazione della diversità, perché senza buonsenso e riconoscimento reciproco si rischia di ricadere, in modo anche più doloroso, nelle tragedie del passato.

Possiamo dunque dire che oggi, grazie anche ai mezzi di comunicazione di massa, tutti i popoli hanno sia una memoria collettiva autoctona, originale, sia un’altra universale; ma che mentre quest’ultima tende a fissarsi stabilmente, la prima o ancora viene negata o subisce un ineluttabile fenomeno di erosione da parte della cultura unificante della merce propria della globalizzazione. Eppure una Memoria nazionale o regionale è il risultato di un lungo processo di sedimentazione di modi di fare e di pensare, di cultura materiale e immateriale, di tutta una serie di comunità che, al di là dei confini regionali o statali, si sono riconosciute in saperi, in idee e in comportamenti che le hanno accomunate nei secoli. E ognuna di queste comunità, pur condividendo nella sostanza la cultura di un territorio più o meno esteso, ha avuto dei connotati specifici che la distinguevano da quelle limitrofe e talora bastavano poche centinaia di metri per trovare parlate e tradizioni differenti.

Si pensi all’aneddotica di canzonatura tra paesi vicini o al culto particolare di certi santi o alla maggiore o minore attitudine alla collaborazione sociale di una comunità rispetto a un’altra espressa concretamente nella tradizione confraternale o in quella del mutualismo laico.

Ebbene, tutte queste costruzioni identitarie locali, faticosamente mediate nel tempo, vere e proprie visioni del mondo interiorizzate e tramandate di generazione in generazione, stanno, in questi ultimi anni, svanendo come neve al sole di fronte ai processi fulminei della globalizzazione che travolgono inesorabilmente anche chi, a parole, dice di volerli combattere, magari rifugiandosi nella lingua madre e nel nostalgismo. Occorre, dunque, un’approfondita riflessione su ciò che sta avvenendo nelle nostre piccole comunità, un’analisi spietata dello stato delle cose che prescinda da compiacimenti folcloristici e affronti il cuore del problema nei suoi gangli essenziali per capire se è ancora possibile o meno salvare in modo attivo la nostra Memoria dall’estinzione.

Per quel che ci riguarda, bisogna innanzitutto rilevare oggettivamente la mutazione antropologica in atto nei nostri borghi, che non c’entra niente con il flusso di migranti provenienti da altri continenti, ma è dovuta alla migrazione interna di ritorno dalla città alla campagna che a partire dagli anni ’80 ha caratterizzato molte zone del nostro paese. Facilitata in alcuni casi (come nel nostro territorio) dalla costruzione di infrastrutture per la velocizzazione degli spostamenti (l’autostrada), essa ha trasferito nel tempo nei nostri borghi migliaia di persone che non sono venute per fare “il gesto dei padri” – e neanche avrebbero potuto per estrazione, cultura ed educazione – ma per godere di una migliore residenzialità. Aspirazione legittima, ma che ha dato il colpo di grazia alla nostra storia rurale: paesi già socialmente impoveriti dall’abbandono della campagna e delle attività tradizionali si sono trasformati in quartieri dormitorio suburbani i cui residenti, nella stragrande maggioranza dei casi, non conoscono niente della Storia e della Memoria locali e nemmeno sono interessati a farlo.

Che fare, dunque? Accettare l’inevitabile sparizione di un mondo che non c’è più oppure, proprio in base al principio “Non c’è futuro senza Memoria”, cercare di riannodare concretamente il filo che ci lega al nostro passato?

Noi crediamo che sia possibile dare continuità alla nostra storia millenaria soltanto se alcuni coraggiosi “eroi”  del nostro tempo – così vorremmo definirli – si faranno carico consapevolmente di questa missione e faranno rivivere a tutto tondo, nella gestione della terra, nei comportamenti e nell’empatia con il territorio, quelle figure di contadini tenaci e schivi che noi abbiamo ancora avuto il piacere di conoscere, scevri da comparse attoriali in funzione del mercato e della spettacolarizzazione della campagna. Dei veri e propri monaci laici, refrattari alle sirene della modernità, che restituiscano dignità e sacralità a un mestiere, quello di “ricamatore della terra”, spesso usurpato da chi, nella terra e in alcuni suoi prodotti, ha visto soltanto la possibilità di un investimento o da schiere di presuntuosi velleitari convinti di riscrivere con le loro pratiche alternative (!) la storia dell’agricoltura.

E la stessa cosa deve avvenire tra gli artigiani, anche loro travolti negli ultimi decenni del secolo scorso dal mito della quantità e della produttività a totale discapito della qualità e dei saperi tradizionali. E non solo: espulsi dal tessuto paesano, spesso costretti o illusi in orribili zone industriali–artigianali, essi hanno perso anche quel ruolo di catalizzatore sociale che rappresentavano con le loro botteghe, luoghi di discussione e di difesa delle libertà individuali. Reintrodurre le loro attività nel cuore dei borghi è, secondo noi, l’unico modo per evitare la desertificazione commerciale e relazionale delle nostre comunità.

Ma contadini e artigiani non possono essere lasciati soli in questa impresa: deve crescere attorno a loro una nuova coscienza paesana collettiva che sappia riconoscere il lavoro pratico e simbolico di questa gente e sia disposta a fare un percorso di neoiniziazione guidato da chi, a vario titolo, tenta tenacemente da diversi anni di far sopravvivere e riproporre l’immaginario della comunità rurale tradizionale. E lo fa per fornire strumenti di conoscenza e di intraprendenza, non per il piacere narcisistico della ricerca di per se stessa.

Questo libro di poesie-canzoni vuole essere un ulteriore contributo a questa operazione di resistenza che anche noi stiamo conducendo da parecchi anni con alcuni di questi “eroi” contadini e artigiani dei nostri territori; e nello stesso tempo una dichiarazione che, in qualsiasi iniziativa seria di salvaguardia della memoria “attiva” della ruralità, saremo sempre al loro fianco, e non per studiarli antropologicamente, ma per aiutarli concretamente, sporcandoci davvero le mani.

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INDICE


Prefazione 3

A lengua da Memória 7

Quante, quante lünn-e, quante, quante furtünn-e 10

A gramèggna 16

’Na xgrivòssa ’ntéi mè suré 18

A néive l’è ’n sentimentu 20

Miséria, miséria néigra, 23

Paîze d’loddri, paîze d’tücci loddri 27

Quande u t’ciòppa ra malincunia 31

Zü dai paîze 35

Santa Bagòsscia 54

De drénta 58

’Nta bitêga du savatin 67

A sun ’na legéra 75

Sé ch’u vö dì ésse sûli 80

Lazòggne ai padrun, pulénta ai garsun 83

San Martin 88

A vurpe e u luvu 93

Blues da Fuìa 99

Canti di pasc-tui 103

Cantu d’maledisiùn 103

Cantu cabané 104

Canti furèsc-ti

(Canti in lingua italiana) 108

Voi anime del mio passato 108

Vecchio carrettiere 112

Un padre contadino 115

Vi ho visto tutti quanti 119

È tempo 124

C’erano una volta… 130

Compagno partigiano 135

Luccica nella nebbia 141

Vorrei vorrei… 146

S’è perduto negli occhi di ghiaccio 150

Una parola antica 154

Lacrime amare 157

K(C)ant (h)a un ritmo 162

Criteri di trascrizione dei termini dialettali 169


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A léngua da Memória

(La lingua della memoria)

Quande u sè d’venta vèggi,
ciü che pensò au l’idman,
’t pénsi sempre a l’indré,
a quellu chè l’è za sc-tò.
U t’suvéggna dei cóse
chi ti t’éri sc-curdò,
in libbru che ormai
u t’paréiva serò.
E ’t prövi ’n’emusiùn
ch’a t’fa mancò i fiò
e u tè xméa quèxi d’esse lì
’mè ch’u fissa ’ncu lantù.

E ’t vègghi da gente
che ormai a gnè ciü,
a foccia d’na ciatèlla
e a bucca d’in saciü.
U t’pòssa davanci
böi e navòsse,
’na cubbia d’muntagnin(n)-i
e ’n côru d’caròsse.

’T vègghi dei dón(n)-e
ch’i fan a bigò,
da gente ch’a ria
sü è zü pè ra cuntrò.
Ma a cósa ciü bella
l’è ch’it sénti parlò
e quéi parólle i tè r’sun(n)-a drénta
’mè ’na müxica ch’it òggi za séntìa
ancu  primma ch’a fissa nasciüa.
E alûra u t’suvéggna
tó mamma e ra só vûxe
quande ’nta chin(n)-a a t’ninòva,
’t sisovi ’ncu u lête da lé.
’T òi sisò anche i só parólle
chi sun d’ventòie vûxe anche per ti
e anche se pöi ’t n’òi imparò dei ôtre
a vûxe di ricórdi a rèsc-ta quella lì (ripetere gli ultimi due versi)

Quande u sè d’vénta vèggi
ciü che pensò au l’idman
u t’suvéggna
tó mamma e ra só vûxe
tó mamma e ra só vûxe (ripetere sfumando)

Questa è la canzone di un paesano quando diventa vecchio e, quasi senza accorgersene, comincia a ripensare alla vita e a ciò che gli rimane del suo vissuto (Quandu u s’è dventa vèggi // ciü che pensò au l’idman // ’t pensi sempre a l’indré // a quellu chè l’è za sc-tò). E allora il pensiero gli corre indietro alle cose significative dell’infanzia e della giovinezza e alle persone care che ha perduto man mano con il passare degli anni.

E gli sovvengono le facce e le  parole di tanta gente che ormai non c’è più (E ’t vègghi da gente // che ormai a’gnè ciü // a foccia d’na ciatèlla // e a bucca d’in saciü), e i carri e i buoi di un mondo contadino scomparso per sempre (U t’pòssa davantci // böi e navòsse // ’na cubbia d’muntagnin(n)-i // e ’n côru d’caròsse).


Rivede le donne lavare i panni nel calderone del bucato con la cenere “bianca” della rovere (’T vègghi dei don(n)-e // ch’i fan a bigò), risente le risa e le voci di tutti coloro che popolavano allora il paese (da gente ch’a ria // sü è zü pè ra cuntrò), ma, soprattutto, le parole della sua lingua madre, il dialetto, lingua appresa ancora prima di avere la capacità di comprenderla (Ma a cósa ciü bella // l’è ch’it sénti parlò // e quéi parólle i tè r’sun(n)a drénta // ’mè ’na müxica ch’it òggi za séntìa // ’ncu  primma ch’a fissa nasciüa). E quelle parole gli richiamano alla mente la voce della madre, quando lo dondolava nella culla sussurrandogli una filastrocca o lo allattava al seno gonfio di latte (E alura u t’suvéggna // tó mamma e ra só vûxe // quande ’nta chin(n)-a a t’ninòva // ’t sisovi ’ncu u lête da lé).

È così che noi paesani abbiamo appreso la nostra prima lingua, succhiandola dal latte della mamma (’T òi sisò anche i só parólle // chi sun d’vèntoie vûxe anche per ti), e anche se poi ne abbiamo imparato un’altra, quella nazionale, la lingua del ricordo è rimasta quella lì, e il nostro immaginario passato  e presente non può fare a meno di esprimersi con essa (e anche se pöi ’t n’òi imparò dei ôtre // a vûxe di ricordi a rèsc-ta quella lì).

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A gramèggna

(La gramigna)

’T la còvi, ’t la sc-ciànchi, ’t la r’voti n’ta zin(n)-a,
ti è tiri fö i réixe ch’a póssa anche scò.
’T la lévi, ’t la brüxi per fôla sc-parì,
a têra a rèsc-pira e fósscia anche ti.
Ma eccu ch’u sc-punta di arbötti in sa e in là,
a i summa za turna u n’ gnè gnénte ch’u fa.
Ma u i n’è nôtra gramèggna ch’lè pézzu che issa,
’t la trövi ciû de sc-pèssu ’mè sè gnénte u fissa.
’T l’oi in giru a’a matin(n)-a e pöi turna a ra séira,
per quantu ’t la còvi l’è sempre ciü néira.
L’è fòccia d’buxìe, de d’cèti e d’muchètti,
u t’tucca sc-tò aténtu a i só trabichètti.
L’à sempre u sciagüiu, a ria s’a t’va mò,
’ntéi tó dixgròssie a i faréiva a bigò.
L’è cita, mesc-chin(n)-a, a t’i è dixa de dré,
’ntè tütte i cóse a i mötta sempre l’afé.
E pûre u i è ’n móddu per sc-ciancòla via,
per mórdla ’ntéi réixe e fôla gnì pasìa:
sciacòla ogni vôta ’mè ch’a fissa in plisùn,
nu dòie cunfidénsa, avéi i muru bun

La canzone è un’allegoria: si racconta dell’erba gramigna, tipico infestante delle nostre colline, e delle difficoltà di estirparla (T la còvi, ’t la scciànchi, // ’t la rvoti ’nt’ra zin(n)-a // … // Ma eccu ch’u sc-punta // di arbötti in sa e in là // … ), ma semplicemente per parlare della “gramigna d’animo”, la cattiveria pettegola che si annida nelle relazioni tra gli uomini (Ma u i n’è ’n’ôtra gramèggna // ch’lè pézzu che issa). Perché sia questa che quella, ogni volta che proviamo ad estirparle, riaffiorano immediatamente vanificando il nostro faticoso lavoro di bonifica (T l’oi in giru a’a matin-na // e pöi anche a’a séira, // per quantu ’t la còvi // l’è sempre ciù néira). Se vogliamo, dunque, difenderci da queste due gramigne, bisogna essere determinati e implacabili e strapparne via le radici schiacciandole come pidocchi, storici parassiti del cuoio capelluto dei poveri (E pure u i è ’n moddu // per scciancòla via, // per mórdla ’ntéi réixe // e fôla gnì passìa: // sciacòla ogni vôta // mè ch’a fissa in plissùn, // nu dòie cunfidénsa, // avéi i muru bun.).

La “gramigna d’animo” è uno degli aspetti peggiori della convivenza umana e i danni che essa può provocare (L’è fòccia d’buxìe, de d’cèti e d’muchètti // u t’tucca sc-tò aténtu a i só trabichètti. // L’à sempre u sciagüiu, a ria s’a t’va mò, // ’ntéi tó dixgròssie a i faréiva a bigò. // L’è cita, mesc-chin(n)-a, a t’iè dixa de dré, // ’ntè tütte i cóse a i mötta sempre l’afé ) sono talora così grandi da condizionare l’esistenza individuale, ma anche di intere comunità.

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A néive l’è ’n sentimentu

A néive a cozza fin(n)-a
sciòssa ’mè farin(n)-a.
Sitta, lingéra,
ma sè tè sc-tòi a sentìla
a scigûra ’mè i véntu.
A s’ pósa e a cröbba
i prò, i bósc-cu e a sc-trò,
’na cuèrta du sé
cuntra u zéru
ch’u brixréiva tüttu aré.


E a sc-panda ’nt’l’òria in prufümmu
ch’u sa dè d’frèsc-u è d’pulittu
è u fa fin(n)-a piaxéi
resc-pirò ch’u a bucca duèrta.


E ’mè ch’l’è bellu
sentìla scrusciò
sutta i bruchin(n)-i,
che ti ’n la piantréivi ciü lì d’caminò!
Quande u fiócca
u s’ fèrma i bricchi,
a gente a sè r’pósa,
a néive per méixi a mötta tücci d’acordiu.


L’è ’n padrun ch’u c’manda
e ’t lè dévi ubidì.
U i penserà i marin
a fôla xlénguò sc-ta primma.
U i penserà i marin
a fôla xlénguò sc-ta primma,
a fôla xlénguò sc-ta primma,
a fôla xlénguò sc-ta primma.

(La neve è un sentimento)

Chi non è vissuto in una zona dove d’inverno la neve è la dimensione dell’esistenza non può capire come la neve possa essere personificata in un sentimento. Il turista che la vede magari per la prima volta o anche quello che la conosce perché ci va a sciare o a fare alpinismo non può comprendere cosa vuol dire convivere e adattarsi alla dimensione esistenziale della neve così come fa chi ci cresce in mezzo, inverno dopo inverno, nella sua quotidianità. Solo così, infatti, si determinano quegli automatismi che ti fanno dire, senza neanche pensarlo, che l’è ’n témpu da néiveu fiuchin(n)-a… u fiócca forte… u fiócca sciòssu… déi faróppule grósse… u nan véggna ’na xnugiò… in cü… u xmarin(n)-a, e qualora tutto ciò non accada ti senti deprivato di qualcosa, di quella che è la tua normalità.

Quando cade la neve, avviene in noi una trasformazione del concetto di silenzio: ogni rumore è attutito, e in questa atmosfera ovattata chi è attento e abituato alla neve riesce a percepirvi una sorta di respiro ininterrotto (a scigùra méi véntu). Poi, man mano che la coltre cresce, si stende sulla terra una coperta provvidenziale che la difende dal gelo e nel silenzio il crocchiare della neve sotto gli scarponi diventa metafora dell’umano, riaffermazione ossessiva e reiterata della propria esistenza. E così l’aria tersa e fine che si respira a pieni polmoni durante una nevicata ci dà una sensazione di pulizia insieme fisica e spirituale.

La neve cambia i ritmi di vita della gente di montagna che l’attende ogni volta con un duplice sentimento: da un lato la teme perché mette fine alle attività di tutto un anno, a qualsiasi punto esse siano; d’altro canto è il riposo atteso con trepidazione per recuperare energie e prepararsi a una nuova stagione di lavoro e di esperienze. È lei la padrona, non c’è niente da fare. Solo il vento di marino la spazzerà via in un baleno all’arrivo della primavera.

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Quande u t’ciòppa ra malincunia

Malincunia, d’sè ch’it òi lasciò.
Malincunia, d’in sóggnu bel’andò.
Quande u t’ciòppa ra malincunia
u t’pò che tüttu u tè sc-còppa via,
i cóse belle e quelle brütte,
i sentimenti e anche i futte.
E ’t sénti in gruppu in fundu a ra gura
’n amòriu in bucca ch’u t’fa gni l’arsüra.


Malincunia, di ’na dón(n)-a pèrdüa.
Malincunia, di ’na carèssa mòi dòia.
Quande u t’ciòppa ra malincunia
d’vègghi a só fòccia frèsc-ca e culuria,
i só öggi belli ’mè u su,
a só bucca tütta da baxò.
E u tè sc-cura ’na logrima fin(n)-a
’mè ’na sc-tella ch’a còzza a’a matin(n)-a.


Malincunia, d’zigò ’ncu ’na partia.
Malincunia, ch’a n’è mòi finia.
Quande u t’ciòppa ra malincunia
d’vuressci dò in cóusu ai balùn
e caciòle zü dai mirètti
fin là ’n fundu dand’u i è i trabichètti.
E ’t vègghi i fatù ch’u tè sc-cura cui basc-tun
e i preve ch’u s’ léva u rubun.


Malincunia, d’in ommu sc-furtinò.
Malincunia, d’in bar chè l’è serò.
Quande u t’ciòppa ra malincunia
t’it lè vègghi lì davanci a’a Sòla
ch’u sc-chersòva e u cuntòva dei musse
che per gnôtri i era carèsse.
E ’t sénti a gnèrra d’quand’u riéiva,
i gumme ’ntei curve chi sciguròva.


Malincunia, d’vive d’nusc-talgia.
Malincunia, ch’a séggia za finìa.
Quande u t’ciòppa ra malincunia
u t’suvéggna a gente ch’a s’ n’è ’ndoia
’nti quel pósc-tu dande ch’u xméa
ch’un sé póssa propriu gni ’ndréra.
E ’t pensi ai mundu ’mè l’è cangiò
e ai paîze che ormai u gnè ciü.


Malincunia, losscime sc-tò.
Malincunia, fomme quetò.
Ormai a vöju vive a l’urdóssu
lasciò che a vitta a mè sc-cura adóssu (ripetere due volte sfumando)

(Quando ti prende la malinconia)

La malinconia è uno stato d’animo o un vero e proprio sentimento che ci prende spesso nella vita, a seconda delle diverse sensibilità. La solitudine non cercata, ad esempio, genera malinconia, desiderio di una vita di relazione più intensa che possa scacciare i cattivi pensieri. Ma talora ci succede viceversa: la malinconia ci prende proprio per una vita di relazione intensa, ma deludente, insignificante, priva di emozioni. Anche la vecchiaia, questa tappa estrema della vita, favorisce l’insorgere della malinconia sia per il tempo che man mano si assottiglia sia per nostalgia di un passato mitico rispetto alla banalità del presente. E in tutto questo il filtro della Memoria è fondamentale e, a seconda di quanto è fervido l’immaginario individuale, riesce a trasfigurare la normalità in un modello ideale.

Malinconia della realtà che ci sfugge vertiginosamente e ci lascia con un groppo in gola (… e ’t sénti in gruppu in fundu a ra gûra // ’n amòriu in bucca ch’u t’fa gnì l’arsüra). Malinconia di un amore perduto che ci fa ancora versare una lacrima (E u tè sc-cura ’na logrima fin(n)-a // ’mè ’na sc-tèlla ch’a còzza a’a matin(n)-a) . Malinconia di una partita giocata nella piazzetta del castello (’t vuréssci dò in cousu ai balùn // e caciòle zü dai mirètti). Malinconia di un uomo generoso morto troppo presto (ch’u sc-chèrsòva e u cuntòva déi musse // che per gnôtri i éra carèsse). Malinconia di vivere di nostalgia e di cominciare a pensare sempre più spesso alla morte (u t’suvéggna a gente ch’a s’n’è ’ndoia // ’nti quel posc-tu dande ch’u xméa // ch’u n’ sé póssa propriu gni ’ndréra). Meglio dunque smettere con la malinconia e vivere serenamente appartati lasciando che la vita ci scorra addosso.

A proposito dell’uomo generoso morto troppo presto: non si tratta qui di un uomo generoso qualunque, ma di Osvaldo Gastaldo, ’Svaldo per gli amici, di professione piastrellista, gestore nei fatidici anni ’70 del bar della Filarmonica di Lerma insieme alla moglie Germana. Ballista straordinario, resta famosa una sua “balla” su una risalita del Bracco con la mitica Fiat 1400, con derapate a ogni curva per staccare una Fiat 500 sospetta che gli si era messa a culo (Stephen King, al confronto, è solo un dilettamte!): giunto a metà salita, Osvaldo si sarebbe fermato in uno spiazzo per affrontare il suo inseguitore e dalla 500 sarebbbero scesi cinque energumeni (ommi ôti dui metri, i sarà sc-tòi in quintòle l’ün!) e l’avrebbero aggredito; lui li avrebbe affrontati e dopo tre ore di bòtte da orbi li avrebbe lasciati esanimi e pesti sulla ghiaia del piazzale. Ma nello stesso tempo, o forse proprio per questo, un uomo pazzamente generoso e lo dobbiamo a lui se, orfani del Circolo del prete, abbiamo trovato nel suo locale un posto dove stare bene insieme in qualsiasi momento e siamo riusciti a vivere la straordinaria avventura del campionato CSI 1971-1972, quello della squadra di calcio paesana che aveva battuto ripetutamente le squadre blasonate della grande Zéna.

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A sun ’na legéra

A dormu ntéi fén
o püre ’ntéi sc-tòlle
’na xòtta de m’nèsc-tra
sutta a vôta déi sc-tèlle


A prövu a di rian(n)-i
o sü per déi zin(n)-e
a rîvu de sc-fröxu
dand’u i è déi cascin(n)-e

E quande ch’i m’ vègga
cu’u sòccu ’ntéi sc-pòlle
u m’ véggna ’ncuntra
scia ommi che dón(n)-e.


Mi a vóggu in sa e in là,
scì, a sun ’na legéra,
ma per gnénte ai mundu
a cangiu bandéra.


Legéra ’mè l’ègua,
legéra ’mè i véntu,
a pòssu ’nta têra
ciü lèsc-ta che u lampu
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I ómmi i vurésscia
dòmme ’n pó da mangiò
sultantu s’a i ö
què d’lavurò,


ma ai dón(n)e e ai fiöi
u i piòxa vegiò
e i vöra i mè fóre
ciü che i mè giaminò.


Perchè mi a i cuntu
déi munte e déi pian,
de d’pórti e d’sitàe
d’in mundu luntan,


de d’mocchine sc-trane
e d’camin(n)-i ’ntu sé,
de d’dón(n)-e sc-pujòie
dusci cumme l’amé.
Mi a vóggu in sa e in là…


Sé pöi u rîva
i xbiri a sercôme
tücci i m’avîza
ch’i n’ póssa ciapôme,


perchè mi a n’ voggu
d’acórdiu cun lu
chi sc-tan sempre insèmme
a chi l’à de ciü.


I cuntin(n)-ua a dîme
ch’a dévu pagò
i tòsse ’mè i ôtri
e fò anche u surdò.


E tci mi a sc-còppu
d’cascin(n)-a in cascin(n)-a,
in pó versu i pian
e pöi turna in culin(n)-a.


E quande ch’i m’ ciòppa
s’i m’ mötta in galera
sultantu perchè
a sun ’na legéra,


mi a lòssciu pasò
i méixi e anche i òggni,
ma pöi quand’a sciórtu
a vòggu a próvu a i mè sóggni.


Mi a vóggu in sa e in là… (ripetere due volte)

(Sono una “leggera”)

Ho già spiegato che cos’era una legéra nella canzone Quante, quante lün(n)-e, quante, quante furtün(n)-e, parlando di una persona specifica, il Ruscignö. Qui, invece, presento la vicenda esemplare di una legéra qualunque che racconta in prima persona la sua condizione esistenziale.

Comincia dal dormire, il “mal dormire” potremmo definirlo, nei fienili o nelle stalle (A dormu ntéi fén // o püre ’ntéi sc-tòlle) e prosegue con il mangiare, il piatto di minestra che nessuna famiglia contadina gli nega (’na xòtta de m’nèsc-tra // sutta a vôta déi sc-tèlle). Poi parla del suo vagabondare tra le cascine e di come venga accolto benevolmente sia dagli uomini sia dalle donne (E quande ch’i m’ vègga // cu’u sòccu ’ntéi sc-pòlle // u m’ véggna ’ncuntra // scia ommi che dón(n)-e).

Si arriva al ritornello nel quale la legéra fa un’orgogliosa dichiarazione di appartenenza (Mi a vóggu in sa e in là, // scì, a sun ’na legéra, // ma per gnénte ai mundu // a cangiu bandéra) riaffermando la sua scelta di libertà e paragonandola alla fulminea “leggerezza” degli eventi atmosferici (Legéra ’mè l’ègua, // legéra ’mè i véntu, // a pòssu ’nta têra // ciü lèsc-ta che u lampu).

Poi si riparte con le strofe e qui la legéra fa una netta distinzione tra ciò che si aspettano da lui gli uomini (I ómmi i vurésscia // dòmme ’n pó da mangiò // sultantu s’a i ö // què d’lavurò.), cioè lavoro in cambio di ospitalità, e le donne e i bambini (Ma ai dón(n)-e e ai fiöi // u i piòxa vegiò // e i vöra i mè fóre // ciü che i mè giaminò.), cioè favole e racconti di un mondo a loro sconosciuto ma esistente, dove ci sono macchine, fabbriche e donne che non devono faticare nelle stalle e nei campi, ma pensare soltanto a farsi belle (de d’mocchine sc-trane // e d’camin(n)-i ’ntu sé, // de d’dón(n)-e sc-pujòie // dusci cumme l’amé).

Ancora il ritornello a ribadire libertà e “leggerezza” e poi una serie di strofe in cui la legéra racconta il suo rapporto con la forza pubblica (in dialetto i xbiri, come del resto in italiano gergale “gli sbirri”) che non è mai positivo in quanto gli sbirri stanno sempre dalla parte dei più forti (Perchè mi a n’ voggu // d’acórdiu cun lu // chi sc-tan sempre insèmme // a chi l’à de ciü) e pretendono che lui paghi le tasse come tutti gli altri e che si sottoponga alla leva militare a cui forse è renitente (I cuntin(n)-ua a dîme // ch’a dévu pagò // i tòsse ’mè i ôtri // e fò anche u surdò).

Ma per fortuna lui gode del favore dei contadini, che cercano di “coprirlo” avvisandolo tempestivamente del loro arrivo (tücci i m’avîza // ch’i n’ póssa ciapôme), e così può fuggire di cascina in cascina cercando di far perdere le sue tracce (in pó versu i pian // e pöi turna in culin(n)-a).

Se, però, malauguratamente lo arrestano e lo mettono in prigione (s’i m’ mötta in galera), lui aspetta paziente che passi il tempo di detenzione e poi, fiero di se stesso, torna a fare la legéra (a vòggu a próvu ai mè sóggni) secondo l’ebbrezza libertaria ribadita dal ritornello.

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’Sé ch’u vö dì ésse sûli

Quande ’t vuréssci
parlò cun cherchèdün
e ti n’ nan sciórti,
l’antura ’t éi sûlu.
Quande ’t pòrli
cun tanta gente,
ma l’è ’mè chè se ti n’ lè fèssi,
l’antura ’t éi turna sûlu.
Quande pöi ’t éi sûlu,
e ’t vuréssci ésse
ancù ciü sûlu,
ma’t òi anche pöria d’éssle,
l’antura ’t éi ciü sûlu che sûlu.


A vitta a ’t pórta
a ésse sûlu,
ma ésse sûlu
a n’è gnénte vitta. (ripetere tre volte l’ultimo verso)

(Che cosa vuol dire essere soli)

È questo il blues della solitudine, blues musicalmente parlando, ma anche come tema testuale. Mi venne ispirato da un fatto traumatico accaduto in paese, un ragazzo che si tolse la vita. Rimasi sconvolto allora, sia perché lo conoscevo bene sia perché nessuno in paese si era reso conto del suo disagio. Fu un fallimento personale e come comunità o forse il frutto della fine della comunità. Si potrebbe obiettare che ci sono sempre stati i casi di suicidio nelle piccole realtà paesane e che è sempre stato difficile prevenirli o capirne le ragioni banali o profonde che li hanno determinati. Ma se si crede nella forza solidaristica di una comunità non si può accettare l’idea che qualcuno si ritrovi da solo di fronte all’abisso. E il senso d’impotenza che ne deriva suscita in noi una malinconia struggente che forse solo la musica e la poesia sono in grado di affrontare.

L’assenza di comunicazione sta alla base della solitudine. Ciò può avvenire per incapacità nostra a parlare con gli altri oppure per esclusione da parte degli altri in base agli stereotipi del momento ( è maffo, è squincio, è nano, ecc.). Fatto sta che per un motivo o per l’altro non si riesce a comunicare (Quande d’vuréssci // parlò cun cherchèdün // e ti n’ nan sciórti, // l’antura ’t éi sûlu). Ma si può essere soli anche in mezzo a tanta gente con cui si parla senza riuscire davvero a comunicare, perché si hanno idee del mondo completamente diverse e il dialogo è, come si suol dire, “un dialogo tra sordi” che a poco a poco si esaurisce fino a ridursi al silenzio (Quande ’t pòrli cun tanta gente // ma l’è ’mè chè sè ti n’ lè fèssi, // l’antura ’t éi turna sûlu). La solitudine è una voragine nella quale si precipita sempre più velocemente quanto più siamo soli. Solitudine alimenta solitudine e l’ebbrezza del cupio dissolvi ci crea una duplice sensazione di piacevole abbandono e, contemporaneamente, di angosciosa consapevolezza di precipitare (Quande pöi ’t éi sûlu, // e ’t vuréssci ésse ancu ciü sûlu, // ma ’t òi anche pöria d’éssle, // l’antura ’t éi ciü sûlu che sûlu). L’amara considerazione finale – perché cantare queste cose fa precipitare nello stesso vortice – è che noi tutti siamo soli e, per quanto ci diamo da fare per scacciare questa solitudine esistenziale ingannandoci in mille modi, basta che solo un attimo, un solo attimo, dimentichiamo la nostra “recita” quotidiana per sentire su di noi tutto il peso di una vita fatta per essere soli e, quindi, una non vita (A vitta a t’ pórta a ésse sûlu, // ma ésse sûlu a n’è gnénte vitta).

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Vecchio carrettiere

Vecchio carrettiere torna sulla strada,
vecchio carrettiere lega ancora il bue,
vecchio carrettiere torna a camminare
sui sentieri del nostro cuore.


Quando tu scendevi giù da noi al paese
all’osteria ti fermavi, all’Osteria degli Amici,
un carro di legna per un po’ di vino,
una zuppa di ceci ed eri bello pieno.


Tu viaggiavi la notte come in pieno giorno,
ai buoi non mettevi mai la lanterna,
se poi ti fermavi nella stalla dormivi,
la coppia di buoi mai non la lasciavi.

Quando nel bosco la legna tu tagliavi
le piante più belle quelle non toccavi,
ci sono delle piante che non puoi tagliare,
ci sono delle piante troppo belle per morire.


Ora che stai nell’Osteria di Dio
dove ci sono solo vacche e buoi,
chissà che viaggi fai nei pascoli del cielo,
chissà se sulle stelle ci sarà del fieno.
Vecchio carrettiere torna sulla strada,
vecchio carrettiere lega ancora il bue,
vecchio carrettiere torna a camminare
sui sentieri del nostro cuore. (ripetere tre volte l’ultima riga)

Vecchio carrettiere

Un’altra canzone dedicata esplicitamente ai carrettieri della montagna che periodicamente scendevano nei paesi con il loro carico di legna. È un testo che si rivolge direttamente in seconda persona a un carrettiere tipo.

La prima strofa è un’invocazione affinché questo vecchio carrettiere torni a fare quello che ha sempre fatto (Vecchio carrettiere torna sulla strada // vecchio carrettiere lega ancora il bue //vecchio carrettiere torna a camminare) se non realisticamente, almeno metaforicamente (sui sentieri del nostro cuore). La seconda, la terza e la quarta sono il ricordo dei vari aspetti di questa vita di viaggi su e giù per i monti. Nella seconda si rammenta la discesa nei paesi e la sosta nell’osteria dei carrettieri, in ogni paese ce n’era una. Qui io faccio riferimento all’Osteria degli Amici di Lerma, detta più comunemente “da Micóttu”, che era il nome del proprietario. Era situata dove oggi c’è il ristorante “Il Cenacolo”. Osteria popolare, in cui vitto e alloggio erano spartani, ma a prezzi modici (un carro di legna per un po’ di vino // una zuppa di ceci ed eri bello pieno). La terza ribadisce la perfetta simbiosi tra l’uomo e la bestia sia durante il viaggio anche notturno (Tu viaggiavi la notte come in pieno giorno // ai buoi non mettevi mai la lanterna) sia nell’eventuale riposo (se poi ti fermavi nella stalla dormivi // la coppia di buoi mai non la lasciavi). I cabané o becélli, come venivano chiamati nei nostri paesi,se si fermavano per la notte all’osteria, dormivano tutti nella stalla con i buoi, sdraiati dentro a gréppia, la mangiatoia, in un letto di fieno.

A proposito di questa usanza, per sottolineare quanto fosse sintomatica della particolare relazione che i cabané avevano con i loro buoi e non semplicemente un espediente per abbattere il costo di vitto e alloggio, faccio riferimento a una situazione analoga vissuta in casa mia. La mia famiglia di contadini viticoltori era dotata di carro e bigoncia, ma data la situazione fisica di mio padre (aveva perso una gamba quando aveva dodici anni) non teneva il bue che nessuno avrebbe potuto governare. Veniva a fare il carrettiere per noi alla vendemmia un cabané della cascina Fanan, sulla Colma, detto per l’appunto Miché d’Fanan. Stava con noi tutto il periodo della vendemmia e, nonostante mia madre gli preparasse ogni volta appositamente una camera, lui non ne voleva sapere e andava a dormire nella stalla con le sue bestie.

La quarta strofa racconta del rapporto che i cabané avevano con il bosco, fonte prioritaria di reddito per la gente della montagna. Ma loro sapevano che, per farlo rendere negli anni, il bosco doveva essere governato con cura e i tagli fatti al momento giusto e con la sapienza maturata nei secoli dagli antenati, non in modo indiscriminato e predatorio. E non solo: nonostante la legna fosse il loro pane, questi uomini avevano anche una sensibilità di tipo animistico che li portava talora a “risparmiare” delle piante per la loro sacrale bellezza (le piante più belle quelle non toccavi // ci sono delle piante che non puoi tagliare // ci sono delle piante troppo belle per morire).

La quinta strofa è assolutamente onirica e si rivolge al presente del carrettiere, figura ormai scomparsa da circa cinquant’anni. Il presente è sicuramente in Cielo (Ora che stai nell’Osteria di Dio // dove ci sono solo vacche e buoi) dove il carrettiere continua a vagare di stella in stella come un cosmonauta alla ricerca di nuovi pascoli per le sue bestie (chissà che viaggi fai nei pascoli del cielo // chissà se sulle stelle ci sarà del fieno).

Alla fine si riprende la prima strofa, quella di invocazione diretta, accentuando nell’esecuzione la nostalgia evocativa ai limiti del “magone”.

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Un padre contadino

La nebbia fine butta,
ti bagna da capo a piedi,
profuma di sudore
la maglia del contadino. (ripetere due volte la strofa)

Ricordi quel contadino
che stava su una gamba sola,
pareva una gru in palude
quando aspetta la sua preda.

Zappava tre volte le viti,
la vigna sembrava un giardino,
non c’era un filo d’erba
neanche a pagarlo d’oro.


Zappava, cavava e roncava,
arava, mieteva e falciava,
risuona la campagna
del ferro sulla pietra.

Curava le viti sul monte,
potava, legava e insolfava,
se i grappoli stanno al sole
hanno tutto un altro colore.


Pestava l’uva nel tino,
il mosto dentro le botti,
ci vogliono otto giorni
prima che diventi vino.


Lavorare la terra
vuol dire bagnare camicie,
spruzzare sulle zolle
il sudore della tua fronte.


Non ci sono più contadini,
sono andati a vendemmiare in cielo,
là il mosto è più gustoso,
profuma di Dio. (ripetere due volte la strofa, variando
l’ultimo verso con “ubriaca di Dio”)


Quel contadino è mio padre,
è il padre di mio padre,
è il padre di tutti noi,
è un padre contadino.

Un padre contadino

Questa canzone è dedicata alla tradizione contadina delle nostre colline, da sempre vocate alla viticoltura e produttrici di vini di ottima qualità soprattutto quando li facevano personaggi come mio padre che erano tutt’uno con la loro vigna e la loro cantina (altro che enologi!). È, dunque, dedicata a lui e a tutti quei padri contadini che sulla terra ci si sono consumati.

Inizia con un ritornello che è frutto di esperienza vissuta e di un ricordo olfattivo di mio padre: da un lato la memoria dell’ultimo “ronco” che facemmo insieme a mano, era il 1973, d’autunno, con quella nebbia che bagna (da noi si dice: sc-carnèbbia) fino a renderti completamente fradicio (La nebbia fine butta // ti bagna da capo a piedi); dall’altro l’odore delle sue maglie di lana (portate tutto l’anno, tranne nella calura estiva) messe a stendere sopra la stufa a due bocche quando tornava dalla vigna.

Ci sono poi sei strofe nelle quali si racconta la figura dell’uomo che era mio padre e i lavori che lui faceva in campagna così come ogni altro contadino di allora.

La prima strofa ricorda la disgrazia della sua infanzia (Ricordi quel contadino // che stava su una gamba sola), che lui ha saputo mutare in formidabile forza, con una similitudine naturalistica (pareva una gru in palude // quando aspetta la sua preda). La seconda è dedicata alla sua vigna e alla cura che lui aveva per essa (Zappava tre volte le viti // la vigna sembrava un giardino): la terza zappatura forse non era necessaria dal punto di vista colturale, ma lo era, per lui, dal punto di vista estetico e non c’era pericolo che attecchissero le radici della gramigna (non c’era un filo d’erba // neanche a pagarlo d’oro). La terza è un riepilogo dei lavori tradizionali in campagna (Zappava, cavava e roncava, // arava, mieteva e falciava,) e di come era possibile allora, girando per i campi e per le vigne, sentire il rumore dei vari ferri del mestiere (zappa, aratro, falcetto e falcione) prima della meccanizzazione (risuona la campagna // del ferro sulla pietra). La quarta riguarda esclusivamente la coltura della vite sia sotto l’aspetto dei lavori necessari (Curava le viti sul monte // potava, legava e insolfava,) sia sotto quello fondamentale della posizione della vigna che, se è in collina, fa maturare meglio l’uva (se i grappoli stanno al sole // hanno tutto un altro colore). La quinta dà delle vere e proprie indicazioni per la vinificazione, sottolineando tutti i passaggi: pigiatura nel tino, versamento del mosto con la brenta nelle botti di castagno, bollitura del mosto per otto giorni prima di diventare vino (Pestava l’uva nel tino // il mosto dentro le botti // ci vogliono otto giorni // prima che diventi vino). La sesta è una definizione del lavoro del contadino con un modo di dire dialettale (Lavorare la terra // vuol dire bagnare camicie) e con una metafora (spruzzare sulle zolle // il sudore della tua fronte).

Si chiude con due strofe di ritornello che hanno la stessa melodia musicale del primo, ma cambiano in quanto a testo. La prima è un’allegoria sulla sparizione dei contadini, quelli veri, quelli di un tempo, che hanno ritrovato in cielo le vigne che materialmente hanno dovuto lasciare (sono andati a vendemmiare in cielo) e possono godere di un mosto davvero speciale (là il mosto è più gustoso // profuma di Dio). Questa strofa viene ripetuta due volte, la seconda con una variante nell’ultimo verso (ubriaca di Dio) a metà tra il realismo del paradiso terrestre e la metafisica di quello celeste. La seconda è la rievocazione della nostra storia comune, perché tutti noi veniamo, prima o dopo nelle nostre storie individuali, da una radice contadina che, purtroppo, la maggior parte di noi ha dimenticato (Quel contadino è mio padre // è il padre di mio padre // è il padre di tutti noi // è un padre contadino). È l’omaggio estremo alla contadinità.

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Luccica nella nebbia

Luccica nella nebbia

Luccica nella nebbia che butta il mattino
il tuo baffo rosso e irrispettoso,
gracchia nell’aria tersa e fine
la tua voce che sa di fumo.
Brucia sferzante la tua ironia
nel sole opaco che non riscalda.
Fa freddo in questo grigio fondovalle,
ci manca un lembo del  tuo mantello.


Sei Garibaldi ferito all’Aspromonte,
sei Mazzini che fugge clandestino,
sei Bakunin cavaliere errante
sei un ragazzo caduto partigiano.
Sei gli ebrei e tutti i deportati
che dai lager non sono mai tornati,
ma anche un tupamaro della prateria,
un maquis che attacca la gendarmeria.


Compagno Cippo, compagno partigiano,
tu ci hai lasciato per un posto lontano,
scavalca il tempo, torna qui da noi
che siamo orfani di tutti i sogni tuoi.


Ti cerco nella folla dei cortei,
tu che sapevi infonderci coraggio,
ti sento nella voce di un ragazzo
che grida forte tutto il suo sdegno.
Ti vedo mentre parli della lotta,
delle ragioni per cui ci battiamo,
ti ricordo spontaneo e deciso
contro i dogmi di ogni partito.
Tu volevi cambiare il mondo
 senza capi e senza padroni.


Con la crisi degli ideali
sono spariti anche i compagni:
chi si rifugia nella famiglia
nelle campagne e nei cascinali,
chi fa i soldi come i padroni
e si giustifica con i bisogni,
chi passa addirittura dall’altra parte
e si comporta peggio dei signori.
Non aspettava altro questa gente
che i nostri sogni diventassero niente.


Lungo il sentiero c’è un cippo partigiano,
lungo il sentiero c’è il compagno Cippo,
un partigiano del nostro tempo
che lotta ancora anche su nel cielo,
un partigiano che non ha età
e lotta sempre per la libertà.

Fabrizio Bondio, detto “Cippo”, era un compagno valtellinese che avevo conosciuto durante la mia esperienza di insegnante in Valle dal 1978 al 1986. Rosso di pelo e di spirito, con un passato da operaio alla Breda, Fabrizio era poi tornato al paese natale, Ponte in Valtellina, e aveva trovato lavoro in Comune a Sondrio. E a Ponte aveva fondato, insieme ad altri compagni, il circolo culturale autogestito “Il forno”, uno straordinario spazio di libertà e di discussione politico-sociale in un territorio, la Valtellina, tradizionalmente democristiano prima e leghista e forzitaliota poi.

Ci conoscemmo nella sede di Democrazia Proletaria a Sondrio, a cui entrambi eravamo iscritti, durante l’era Capanna e interpretammo la nostra comune militanza in modo gioioso, un po’ al di fuori degli schemi rigidi di certi compagni. Ci accomunava uno spiccato senso dell’ironia e un sentirci partecipi di tutti i fermenti di quegli anni che non era sempre possibile inquadrare nella linea politica del partito. Un po’ anarchici, preferivamo l’approccio umano ai problemi anziché quello ideologico che spesso rischiava di essere riduttivo e fuorviante. Come se il partito, al quale pure aderivamo, fosse una camicia stretta per la nostra esuberanza libertaria.

Ricordo un episodio significativo di questa differenza di concezione del lavoro politico. Dovevamo rinnovare la carica di segretario locale del partito e i potenziali candidati erano i membri della Segreteria, tra cui c’ero anch’io. Ad elezione avvenuta, venni a sapere che sul mio nome era stato posto il veto dal compagno “duro e puro” del gruppo, che aveva sentenziato che io ero troppo “fricchettone” per fare il segretario, capelli lunghi, simpatie hippie e anima rock. Fu una fortuna per me, perché non ce l’avrei mai fatta a sopportare il burocraticismo spesso ottuso dei rituali di partito.

Ottenuto il trasferimento in Toscana, mi dispiacque molto lasciare la Valtellina, anche per quell’esperienza politica in Democrazia Proletaria che mi aveva fatto conoscere tanti compagni simpaticamente intelligenti. Rimasi tuttavia in contatto con alcuni di loro, tra cui c’era anche “Cippo”.

Finita l’esperienza Toscana, tornai  a Lerma  nel 1998 dove, oltre a continuare il lavoro di scrittura iniziato con “Careghé” nei primi anni’90, fui eletto in Consiglio Comunale e successivamente, nel 2001, presidente del Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo, carica che ricoprii fino al 2011. Nel frattempo avevo cominciato a lavorare anche in teatro sia con il Laboratorio della Teatralità Popolare, da me fondato presso l’Ecomuseo di Cascina Moglioni, sia in duo con Roberto Paravagna nella messinscena di reading teatrali (musica e letture) su vari argomenti culturali, politici e sociali. E proprio dai compagni del circolo “Il forno” venni invitato a presentare alcuni dei miei libri (“Una macchia di sangue sulla fronte” e “Per non morire di deculturazione”) e a mettere in scena due reading nel teatro di Ponte (“Come una pietra rotolante”, sul ’68) e alla festa del I Maggio (“Lavorare stanca”, sulle lotte per il lavoro).

Queste collaborazioni rinsaldarono l’amicizia e infittirono le visite reciproche. “Cippo” venne a trovarmi in due occasioni: nella prima – non era mai stato qui da noi – gli feci visitare il territorio del Parco e in particolare la zona della Benedicta, conoscendo il suo interesse per la storia partigiana; ricordo che, oltre al mio libro “Due storie partigiane”, gli regalai “Ponte rotto” di G.B. Lazagna e lui fu molto contento per la stima che aveva del comandante “Carlo”; nella seconda andammo in Val Borbera a trovare degli amici a Carrega e fu una serata memorabile: c’era con noi anche Roberto Paravagna con la chitarra e cantammo tutta la sera canzoni di lotta; e “Cippo” ci stupì tutti da come cantava intonato e da quante ne conosceva parola per parola.

Ma questa allegria, che riusciva a comunicare ogni volta che ci si incontrava, nascondeva un male oscuro in cui “Cippo” aveva cominciato a scivolare. È difficile capire perché un uomo intelligente e simpatico come lui, un riferimento politico e umano per tanti giovani di Ponte e dei dintorni, finisca per rifugiarsi nel bere, come se quel ruolo riconosciuto che ricopriva da tanti anni non gli bastasse. Abbiamo provato a parlarne, a ragionare della grande responsabilità di testimonianza che la nostra generazione aveva nei confronti dei giovani di oggi, disorientati dalla globalizzazione e dalla deregulation del mercato del lavoro, e lui ha sempre minimizzato, cercando di convincerci che conosceva il limite e che sarebbe stato in grado di controllare la situazione. Purtroppo non è stato così: il male oscuro l’ha trascinato nel gorgo e né la fierezza di compagno né la responsabilità di marito e di padre sono riuscite a esorcizzare il tragico destino. Ma, nonostante questo, noi continuiamo a ricordarlo mentre, con il baffo rosso e irrispettoso e la sua sferzante ironia, ci parla della lotta, delle ragioni per cui ci battiamo, e di come vuole cambiare il mondo senza capi e senza padroni, contro i dogmi di ogni partito. E allora sentiamo la sua mancanza, siamo orfani dei suoi sogni, e vorremmo che tornasse qui da noi a infonderci coraggio e a lottare ancora insieme per la libertà come un vecchio partigiano.